Tra molti anni, quando si parlerà degli anni Venti del XXI secolo, sarà impossibile non menzionare il Covid-19. Un capitolo imprescindibile nei libri di storia e nei resoconti della nostra epoca sarà dedicato alla pandemia globale che, a partire dal 2020, ha stravolto l'ordine economico, sanitario e sociale a livello mondiale.
Nonostante la paura, l’incertezza e il caos iniziale, è apparso presto chiaro che un evento di tale portata avrebbe potuto offrire comunque un’opportunità: quella di imparare dagli errori commessi e trarre qualche insegnamento utile per il futuro. Questa è la considerazione da cui muove il libro Managing and preventing pandemics. Lessons from Covid-19 (Routledge, 2024) di Roberto de Vogli, professore di psicologia della salute globale all’università di Padova. Il libro analizza in modo approfondito le politiche, gli eventi e le decisioni che hanno segnato la gestione globale della crisi sanitaria, per cercare di ricavarne almeno qualche lezione che possa esserci utile per il futuro, nel malaugurato caso in cui dovessimo trovarci a fronteggiare una nuova pandemia.
“La pandemia ha messo a dura prova le nazioni di tutto il mondo, costringendole ad affrontare una crisi sanitaria che ha avuto un impatto devastante sulla salute, sull’economia e sugli equilibri politici a livello globale”, ha raccontato il professor De Vogli a Il Bo Live. “Di conseguenza, la speranza era che i governi avessero “imparato qualche lezione”, almeno sul piano della prevenzione”.
A tal riguardo, nell’opera l’autore denuncia l’adozione di un atteggiamento poco lungimirante da parte di molti governi nazionali fin dall’inizio della pandemia. Troppo spesso, a suo avviso, il dibattito pubblico è stato improntato più sulla gestione immediata dell’emergenza e poi sul “ritorno alla normalità”, che non sulla prevenzione e su un ripensamento delle politiche sociali ed economiche con un’ottica che mettesse davvero al centro la salute collettiva.
“Nonostante si tenda ancora a pensare che la salute pubblica dipenda solo dal funzionamento delle strutture di assistenza sanitaria, in realtà essa deriva da un complesso di fattori sociali, economici e politici”, sottolinea il professore. “Porre davvero la salute al centro significa fare in modo che tutti i sistemi – non solo quelli sanitari – siano basati sulla tutela del benessere di ogni individuo.
Per questo motivo, invece che cercare di “tornare alla normalità” dovremmo concentrarci piuttosto sulla costruzione di una “nuova normalità” che ci spinga a considerare la salute non solo come l’effetto di una serie di scelte individuali che compiamo ogni giorno, ma anche come un bene collettivo da tutelare attraverso tutte le politiche pubbliche”.
Nel libro, l’autore spiega come il desiderio di tornare alla normalità rappresenti, per certi versi, un’esigenza psicologica, frutto di una naturale tendenza umana all’ottimismo. Eppure, come sottolinea De Vogli, sebbene un atteggiamento positivo sia essenziale per affrontare la vita quotidiana, esso può favorire una visione limitata della realtà. “L’ottimismo ha un valore fondamentale”, afferma il professore, citando la psicologa statunitense Shelley Taylor, che nella sua opera Positive illusions suggerisce che senza ottimismo probabilmente non avremmo neanche il coraggio di uscire di casa ogni giorno.
“Tuttavia, un eccesso di pensiero positivo può diventare pericoloso”, continua il professore. “Slogan del tipo ‘andrà tutto bene’ non bastano se non vengono create le condizioni affinché le situazioni migliorino realmente. È importante evitare di nasconderci dietro un “ottimismo cieco” e assumere un atteggiamento più lungimirante, che ci spinga ad affrontare con più realismo non solo la gestione delle pandemie, ma anche – e soprattutto – la crisi climatica, che potrebbe causare un’emergenza sanitaria ancora più grave”.
Infatti, come argomenta De Vogli nella sua opera, la prevenzione non può passare solo attraverso interventi strettamente sanitari, ma deve basarsi anche sull’eliminazione di pratiche e comportamenti che amplificano il rischio pandemico.
“I due principali fattori di rischio sono la deforestazione e gli allevamenti intensivi”, afferma il professor De Vogli. “Queste pratiche acuiscono il problema dell’inquinamento e distruggono la biodiversità, aumentando il rischio di zoonosi e mettendo a rischio la salute globale. Eppure, tali pratiche sono basilari nel nostro attuale modello di sviluppo globale, orientato solo al profitto economico e perciò assolutamente insostenibile dal punto di vista ecologico”.
Eppure, il cambiamento climatico potrebbe scatenare una crisi ben più grave di quella causata dal Covid-19, determinando un collasso irreversibile della civiltà moderna. “Si tratta di uno scenario che fino a qualche decennio fa era considerato “estremo” e che oggi invece è piuttosto ricorrente nel mainstream scientifico”, commenta il professore. “Addirittura, riviste come Nature e PNAS oggi parlano di Climate endgame e rischio esistenziale. Queste sfide epocali richiedono l’adozione di politiche radicali che mettano in discussione il nostro modello di sviluppo e che ci permettano davvero di stabilire una nuova normalità che metta al centro la salute collettiva”.
L’importanza di porre la salute collettiva – e non il profitto – al centro delle politiche internazionali emerge anche quando si ragiona sul tema delle disuguaglianze, al quale il professor De Vogli dedica una particolare attenzione nel libro. L’opera ripercorre infatti le scelte politiche ed economiche che hanno impedito un’equa distribuzione dei vaccini contro il covid a livello globale. “Instaurando una cooperazione transnazionale tra case farmaceutiche, nazioni ricche e paesi a basso reddito sarebbe stato possibile permettere a questi ultimi di ridurre il rischio sanitario”, afferma il professore. “Al contrario, il mancato accesso ai vaccini da parte dei paesi economicamente svantaggiati non solo ha amplificato le storiche disuguaglianze a livello globale, ma ha avuto anche un effetto boomerang. Il virus, infatti, non conosce confini: alcuni studi suggeriscono che se i vaccini fossero stati distribuiti più equamente, ciò avrebbe causato una riduzione del rischio su scala globale”.
Il problema delle disuguaglianze non riguarda solo la scena internazionale: il virus ha messo in luce profonde disparità socioeconomiche anche all’interno dei singoli paesi. “All'inizio della pandemia, quando giornali e televisioni parlavano del contagio di celebrità e leader politici, si poteva ingenuamente pensare che il virus fosse ‘democratico’, perché colpiva tutti allo stesso modo”, continua l’autore. “In realtà, le analisi epidemiologiche hanno mostrato che i gruppi più svantaggiati dal punto di vista socioeconomico, le minoranze etniche e le persone a rischio di esclusione sociale correvano un pericolo maggiore non solo di contagiarsi, ma anche di finire in terapia intensiva e di morire. Ecco perché, per essere davvero preparati ad affrontare una nuova pandemia, dovremmo puntare non solo sulla prevenzione sanitaria, ma anche sul contrasto ai determinanti sociali ed economici delle disuguaglianze, che costituiscono anche dei fattori di rischio per la salute pubblica e individuale”.