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In Salute. Progetto Verdi: “Una rete pronta in caso di nuova pandemia”

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Un tema molto dibattuto soprattutto durante le prime fasi della pandemia da Covid-19 è stato l’impatto che la patologia poteva avere su bambini e bambine, in termini di suscettibilità, contagiosità e gravità della malattia. Il nodo era particolarmente importante da sciogliere, perché le risposte della comunità scientifica orientavano spesso le decisioni politiche: continuare con la didattica a distanza o tornare in aula? Riprendere le attività extra-scolastiche che favorivano la socializzazione o muoversi con cautela?
Con il passare del tempo le evidenze hanno cominciato progressivamente ad accumularsi grazie all’impegno scientifico di molti scienziati e scienziate e a corposi investimenti in ricerca. In un precedente articolo su questo giornale, abbiamo citato alcuni dei progetti finanziati dalla Commissione Europea, focalizzando l’attenzione in quel caso sul programma EuCare e sulla sindrome post Covid negli adulti: proseguiamo ora nell’approfondimento di questo tema, spostando però l’attenzione sui più piccoli e sul progetto Verdi (Sars-CoV-2 variants evaluation in pregnancy and paediatrics cohorts).
Il consorzio, coordinato dall'Università di Padova e dalla Fondazione Penta, è composto da 30 partner internazionali in Europa, Stati Uniti, Africa, Caraibi, Medio Oriente e Sud-Est asiatico, e ha avviato i lavori nel 2021. Abbiamo intervistato Carlo Giaquinto, professore di pediatria all’università di Padova, presidente della Fondazione Penta e responsabile scientifico del programma.
Professore, quali sono gli obiettivi del progetto Verdi?
Il progetto Verdi è nato per valutare l’impatto del virus Sars-CoV-2 su donne in gravidanza e bambini, popolazioni spesso trascurate nella ricerca, ma si è poi esteso anche ad altri patogeni, come il monkeypox. Bambini e bambine in particolare hanno un ruolo centrale nella trasmissione delle infezioni respiratorie, all'interno del nucleo familiare e quindi in generale verso gli adulti. Ciò è particolarmente evidente in caso di influenza: in queste situazioni la vaccinazione si rivela molto importante non solo perché aiuta a prevenire forme gravi di malattia, ma soprattutto perché contribuisce a ridurre l’incidenza e la circolazione del virus tra i più piccoli e dunque il rischio di infezione per gli adulti. Ebbene, le stesse osservazioni valgono anche per Covid-19.
Nell’ambito del progetto Verdi sono state considerate ampie coorti pediatriche internazionali, che comprendevano diverse decine di milioni di bambini e bambine seguiti nel tempo. Negli anni la ricerca scientifica si è mossa in varie direzioni. Sono stati condotti, per esempio, studi sulla vaccinazione in età pediatrica, che è risultata estremamente sicura ed efficace. È stato analizzato l’impatto delle varianti virali, rilevando una maggiore severità clinica con Alfa e Delta rispetto a Omicron, sia negli adulti che nei bambini. Sono state studiate alcune condizioni tipiche dei bambini come la Kawasaki-like illness, una vasculite pediatrica associata all’infezione da Sars-CoV-2, dovuta molto probabilmente a una risposta autoimmune. Si è visto che questa patologia era legata direttamente al tipo di variante: molto più frequente con la variante Delta, molto meno con Omicron.
Il progetto Verdi ci ha permesso di raccogliere molte informazioni su Covid-19, ma non solo. Ha consentito anche di costruire una rete di coorti e un network che potranno essere attivati in caso di nuova pandemia. L’infrastruttura infatti continuerà a essere sostenibile attraverso altri progetti e altre reti che sono state da poco finanziate.
Nelle prime fasi della pandemia si riteneva che l’infezione da Sars-Cov-2 interessasse in misura minore i bambini. Alla luce degli studi successivamente condotti, cosa sappiamo oggi?
In età pediatrica l’infezione da Sars-CoV-2 ha un quadro clinico molto meno grave. Quindi molti bambini e bambine, con sindromi simil-influenzali sostanzialmente sovrapponibili a Covid-19, non venivano diagnosticati né ospedalizzati. Ciò portava a pensare che la patologia non interessasse i più piccoli, mentre in realtà colpiva anche loro in maniera significativa, sebbene con sintomi meno severi. Ciò avveniva soprattutto con la variante Alfa. Con la variante Delta, invece, è emerso che la MIS-C, ossia la sindrome infiammatoria multisistemica, poteva manifestarsi in forme specifiche e molto gravi di tipo vasculitico, soprattutto nei preadolescenti e nei primi anni dell’adolescenza.
Si è parlato molto degli effetti a lungo termine di Covid-19 negli adulti, meno nei più piccoli. Il long Covid, dunque, interessa anche i bambini? E, in caso affermativo, in che misura?
Durante una metanalisi condotta lo scorso anno abbiamo considerato i sintomi riferiti da bambini e bambine fino a un massimo di 18 mesi dopo aver contratto Covid-19: abbiamo rilevato innanzitutto che nel 90% dei casi tali sintomi scomparivano dopo i primi tre, quattro mesi. Circa il 35% presentava sintomi cronici, prevalentemente riconducibili a un affaticamento prolungato, a problemi gastrointestinali e, più raramente, sintomi neurologici che perduravano nel tempo dopo la guarigione e la negativizzazione del test. La quasi totalità di questi bambini, però, guariva completamente.
Altri studi hanno rilevato, nei bambini guariti da Covid-19 rispetto ai gruppi di controllo, che circa il 20% registrava un numero più elevato di assenze scolastiche, manifestava difficoltà di attenzione e stanchezza maggiori, che però, anche in questo caso, andavano scomparendo nel tempo.
Abbiamo verificato se esistevano fattori sociali o ambientali che potevano influire sul persistere dei sintomi nel tempo, rilevando che le differenze di sesso, di stato socioeconomico o di comorbidità non incidevano in alcun modo. Per esempio, coloro che soffrivano di asma, anche se potevano avere riacutizzazioni, non presentavano una maggiore incidenza di long Covid. Altri sintomi, come l’alterazione del gusto — molto più specifica negli adulti, soprattutto con la variante Alfa e in parte con la Delta, ma molto meno con l’Omicron —, non erano presenti nei bambini più piccoli.
Un sintomo abbastanza specifico del long Covid nei bambini era la diarrea persistente che si manifestava nel 10% circa dei casi. Non si trattava tuttavia di una diarrea associata a dolori addominali, bensì caratterizzata da un aumento della frequenza delle evacuazioni e da una consistenza più liquida delle feci. Il problema tuttavia durava solo qualche settimana e si risolveva spontaneamente.
Ci sono altri aspetti da considerare o che dovranno essere approfonditi?
In uno dei primi studi che abbiamo condotto, abbiamo rilevato che bambini e bambine con Covid-19, variante Alfa, presentavano con maggiore frequenza lievi alterazioni cardiache. Si trattava di alterazioni senza rilevanza clinica, che venivano identificate grazie a una particolare attenzione diagnostica, e che poi nel tempo si sono risolte. Soprattutto con le prime varianti e in una situazione di non immunità, la risposta infiammatoria era molto importante, e dunque si può ritenere che il long Covid fosse dovuto a una risposta infiammatoria persistente o intensa.
Non sappiamo ancora esattamente qual è stato, o qual è, l'effetto di Sars-CoV-2 sul sistema nervoso, soprattutto sulle funzioni neurosensoriali. Ci sono delle ipotesi, ma i meccanismi non sono ancora chiari. Potrebbe trattarsi di un'infiammazione a livello del sistema nervoso, oppure di un tropismo diretto del virus verso le cellule nervose, più spiccato con alcune varianti e meno con altre.
Il dato importante è che la popolazione sia stata e continui a essere immunizzata, sia attraverso la vaccinazione (immunità attiva) che attraverso i contatti diretti con l’antigene (immunità da infezione). Questo, oggi, rende Covid-19 una sindrome respiratoria che consideriamo abbastanza banale. Anche se la copertura vaccinale ora è molto più bassa di un tempo.
Bambini e bambine con long Covid come vengono presi in carico?
In Italia vengono seguiti dai pediatri di famiglia o dai medici di medicina generale. In città come Padova o Roma, esistono anche ambulatori dedicati per bambini e bambine con problematiche più importanti.
Quali sono le sfide o le difficoltà che si incontrano nel fare ricerca nella popolazione pediatrica?
La mia attività di ricerca si è sempre concentrata sulla popolazione pediatrica e, con il mio gruppo, ho sempre ricevuto finanziamenti anche importanti soprattutto dalla Commissione Europea. Fin dall’inizio degli anni Novanta abbiamo ricevuto un sostegno continuo per diversi progetti, prima per lo studio dell’Hiv e poi di altre infezioni o patologie.
Va detto però che la ricerca in ambito pediatrico presenta delle criticità. Innanzitutto l'interesse da parte delle aziende farmaceutiche è generalmente inferiore rispetto a quello rivolto alla popolazione adulta, nonostante esistano specifici regolamenti pediatrici, sia in Europa che negli Stati Uniti (rispettivamente il Pediatric Regulation e il Pediatric Research Equity Act, ndr), che richiedono alle aziende di studiare gli effetti dei farmaci anche nei bambini, qualora i farmaci in questione possano essere utili anche ai più piccoli. Va considerato inoltre che il mercato farmaceutico per l’età pediatrica è più ristretto, anche perché generalmente i bambini sono in buono stato di salute. Fare ricerca in ambito pediatrico è più complesso e spesso richiede studi multicentrici.
Un altro problema è la mancanza di formulazioni specifiche per bambini e bambine (i farmaci cioè non sempre sono prodotti in una forma adatta ai più piccoli, per esempio come sciroppo o dosi ridotte, nrd), nonostante l'Organizzazione Mondiale della Sanità abbia un programma specifico chiamato GAP-f (Global Accelerator for Paediatric formulations) che si pone questo obiettivo. Servono formulazioni idonee in termini di consistenza (liquidi, capsule, compresse) e di dosaggio del principio attivo, e che siano in grado di soddisfare le esigenze di tutta la popolazione pediatrica, da 0 a 18 anni. E questo comporta costi elevati.
Alcuni farmaci sono più facili da sviluppare, come i farmaci chimici rispetto ai biologici. Esiste però anche un problema regolatorio: servono sperimentazioni in ogni fascia di età, ma non è facile trovare bambini malati con patologie rilevanti in ogni fase della crescita.
La ricerca pediatrica, per concludere, è obbligatoria e fondamentale, perché se non riusciamo a studiare i farmaci — e più in generale le caratteristiche delle malattie — nei bambini, non riusciremo mai a curarli. Si consideri che oggi la maggior parte dei medicinali usati nei reparti pediatrici sono “off label”, cioè farmaci per adulti mai studiati e registrati nei bambini.