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In Salute. Long Covid: “Altre malattie sono associate a sindromi post-infettive”

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“La ricerca, per evidenti ragioni legate all’emergenza, si è concentrata soprattutto sul trattamento e sulla prevenzione dell’infezione, ma il nuovo coronavirus può provocare anche effetti a lungo termine nell’organismo. Si parla di sindrome post-Covid-19 e ci si riferisce alla persistenza di sintomi più o meno debilitanti anche dopo la fase acuta della malattia”. Così scrivevamo su questo giornale il 3 novembre 2020, pochi mesi dopo che l’Organizzazione mondiale della Sanità aveva dichiarato ufficialmente lo stato di pandemia: ne parlavamo in quell’occasione con Enrico Girardi e Andrea Antinori dell'Istituto nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani”. Allora però mancavano ancora conoscenze certe sugli effetti che l’infezione da Sars-CoV-2 poteva determinare nel lungo periodo. A più riprese abbiamo toccato il tema e ora ci torniamo perché, nonostante Covid-19 da tempo non sia più sotto i riflettori, il virus continua a circolare e tuttora alcuni pazienti convivono con le sequele a lungo termine della malattia. Ciò che ora cambia, rispetto a cinque anni fa, sono le conoscenze acquisite e gli strumenti a disposizione di medici e mediche.
Fin dalle prime fasi della pandemia la Commissione Europea ha investito nella ricerca scientifica, sostenendo programmi che includono studi specifici anche su long Covid. Tra questi, solo per citarne alcuni, ricordiamo il progetto Orchestra, finanziato nell’ambito di Horizon 2020 con 26 milioni di euro, e quattro progetti di Horizon Europe – Verdi, Covicis, EndVoc ed EuCare – a ciascuno dei quali sono stati destinati circa 10 milioni di euro.
Abbiamo fatto il punto con Giulia Carla Marchetti, professoressa di malattie infettive all’università degli studi di Milano “La Statale” e direttrice della struttura complessa di Malattie infettive e tropicali dell’ospedale San Paolo, la quale nell’ambito di EuCare ha coordinato lo studio EuCare-PostCovid. Proprio nelle scorse settimane i ricercatori hanno pubblicato un lavoro sull’argomento nella rivista scientifica BMC Infectious Diseases.

Long Covid e fattori di rischio
“Il problema del long Covid – esordisce la docente – è emerso fin dalle prime fasi della pandemia, in particolare durante le ondate del 2020 e del 2021. Inizialmente appariva come una condizione molto diffusa: fino al 50% circa dei pazienti ricoverati per Covid-19 tornavano con sintomi riconducibili a quelli che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha poi definito come long Covid. Successivamente, la situazione è cambiata significativamente grazie all’introduzione di terapie specifiche per il Covid e, soprattutto, allo sviluppo e alla distribuzione dei vaccini”. Secondo l’Oms, in sostanza, si tratta di una condizione (post Covid-19 condition) caratterizzata dalla persistenza o dalla nuova insorgenza di sintomi tre mesi dopo l’infezione acuta, con una durata di due mesi o superiore e senza una spiegazione clinica alternativa.
Il progetto EuCare (European Cohorts of Patients and Schools to Advance Response to Epidemics), che ha coinvolto 19 partner in 15 Paesi, tra università, ospedali e centri di ricerca, è stato avviato con l’obiettivo principale di capire in che modo le varianti del virus Sars-CoV-2 influenzano il decorso clinico di Covid-19 e la risposta immunitaria. Lo studio ha arruolato coorti di pazienti, tra cui pazienti cosiddetti “long Covid”, coorti di operatori sanitari e di scuole in Europa, Kenya, Messico, Russia e Vietnam.
Lo studio EuCare-PostCovid, in particolare, prende in esame le conseguenze a lungo termine della malattia. “Il lavoro ci ha permesso di analizzare i dati di migliaia di pazienti, che abbiamo monitorato fino a tre anni dopo la diagnosi di Covid-19. I risultati mostrano che circa un terzo delle persone che contraggono il virus, manifestano sintomi riconducibili a long Covid fino a 36 mesi”.
Ripercorrendo gli esiti delle ricerche, Marchetti evidenzia l’esistenza di fattori che aumentano il rischio di sviluppare long Covid: “Innanzitutto il sesso femminile, l'essere stati ospedalizzati e soprattutto l'esserlo stati negli anni 2020–2021, quindi prima dell’era vaccinale”. Le caratteristiche di gravità nella fase acuta della malattia rendono dunque questa condizione più probabile. “Incide anche avere un’età avanzata e delle patologie pregresse, legate per esempio alla sfera della salute mentale, quindi depressione o ansia, sebbene in questo caso i dati siano un po’ meno solidi dal punto di vista scientifico. Oggi dunque possediamo una sorta di identikit del paziente con long Covid e questo ci aiuta nella diagnosi e nel trattamento”.

La presa in carico del paziente
“L’Organizzazione Mondiale della Sanità – continua l’infettivologa – ha fornito indicazioni chiare, che rappresentano il quadro di riferimento entro cui orientiamo la nostra pratica clinica. In caso di sospetto long Covid, è stata definita una serie di sintomi da indagare. L’elenco è molto lungo, e quindi anche molto aspecifico. Alcune manifestazioni cliniche potrebbero essere riconducibili alle più svariate condizioni. Si consideri poi che un tratto inizialmente abbastanza distintivo, e cioè la perdita dell’olfatto e del gusto, oggi è molto ridotto e lo rileviamo in pochi pazienti”. Continua l’infettivologa: “Rimangono sintomi come stanchezza, affaticamento cronico, la cosiddetta brain fog, cioè una sorta di nebbia mentale, uno stato di confusione, dolori muscolari diffusi. Se il paziente dunque riferisce uno dei sintomi indicati dall’Oms, procediamo con una valutazione di secondo livello, con indagini sempre più sofisticate, sottoponendo l’assistito a visite di controllo periodiche a seconda delle necessità. Nella maggior parte dei casi le persone guariscono e a distanza di un paio d’anni i due terzi si sono completamente ripresi”.
Secondo Marchetti è importante che i cittadini sappiano a chi rivolgersi e siano informati sulle strutture disponibili sul territorio. “A questo scopo in Regione Lombardia è stato istituito un tavolo di lavoro proprio per identificare i centri con ambulatori dedicati al trattamento di long Covid”. A livello nazionale anche l’Istituto superiore di Sanità, nell’ambito del progetto CCM Long-CoViD, ha coordinato un censimento dei centri di assistenza long Covid in Italia, tra febbraio e maggio 2022. Secondo i dati raccolti, in quel periodo erano già attivi più di 120 centri sul territorio nazionale.

Virus che persiste nel corpo e infiammazione
Il meccanismo patogenetico, cioè le cause alla base della persistenza dei sintomi, è ancora poco noto. “Sono stati indagati vari aspetti e due emergono come i più rilevanti: da un lato uno stato di persistenza virologica, dall’altro un’alterazione della risposta immunitaria. I dati dimostrano che frammenti di virus tendono a persistere nei mesi e in alcuni casi si associano al long Covid. Altri studi invece rilevano il perdurare dell’infiammazione nei pazienti che hanno contratto Covid-19: il sistema immunitario continua a essere più attivo di quanto dovrebbe anche dopo la scomparsa dell’infezione acuta, mantenendo uno stato infiammatorio latente. E questo potrebbe essere correlato allo sviluppo di disturbi a lungo termine”.
Secondo Marchetti questi aspetti andrebbero considerati nel loro complesso: “Personalmente credo che le cause non siano riconducibili a un meccanismo univoco, quanto piuttosto che si venga a creare un corto circuito, sia di tipo virale che infiammatorio, che in alcuni casi porta alla manifestazione clinica di lungo periodo. Va detto che tutte le malattie infettive, dalla mononucleosi, all’influenza fino a quelle più rare come la Dengue, più tipiche di altri Paesi, sono associate a sindromi post-infettive, a sequele che possono durare qualche mese, o anche protrarsi per un anno, ma che con il tempo tendono progressivamente a risolversi”.
La docente spiega che esistono strumenti che consentono di rilevare la presenza di antigeni virali o frammenti del genoma del virus che persistono nell’apparato respiratorio o nel sangue di chi ha contratto la patologia. Allo stesso modo è possibile rilevare specifiche proteine correlate all’infiammazione. Non si tratta tuttavia di misurazioni di routine, e non vengono eseguite nelle cliniche, ma solo nei laboratori di ricerca. “Nessuno di questi marcatori — né di tipo virale né di tipo infiammatorio — è stato validato in clinica, non è stata ancora dimostrata cioè la loro consistente associazione con il long Covid. Quindi non vengono usati a fini diagnostici”. Sebbene si tratti di un aspetto a cui le istituzioni e gli enti di ricerca stanno prestando attenzione.

Chi non si vaccina è più esposto a long Covid
Al momento, non sono ancora disponibili farmaci per trattare il long Covid. “Possediamo però degli antivirali che ne riducono la prevalenza”. Paxlovid è uno di questi: è un farmaco molto potente che deve essere assunto precocemente, all’insorgere dei primi sintomi di Covid-19, ed è consigliato soprattutto nei pazienti fragili, come gli anziani o le persone immunodepresse, che più facilmente rischiano di andare incontro alle forme più gravi di Covid-19. “L’ipotesi è che, bloccando l’infezione da Sars-CoV-2 nella fase acuta e dunque i danni che il virus può causare, si possano ridurre o addirittura completamente evitare le sequele a lungo termine”.
Se terapie come Paxlovid hanno come bersaglio farmacologico una proteina del coronavirus nota come Mpro, da tempo un gruppo di ricercatori del Walter and Eliza Hall Institute of Medical Research ha concentrato l’attenzione su un’altra proteina, chiamata PLpro. Gli scienziati sono riusciti a sviluppare un composto in grado di prevenire disturbi a lungo termine, che possono interessare per esempio cervello e polmoni. Al momento, lo sottolineiamo, gli esperimenti sono stati condotti sui topi. Marchetti osserva che la nuova molecola, che gli studiosi illustrano in un articolo su Nature Communications, sembra avere potenzialità migliori di Paxlovid e meno effetti collaterali.
L'infettivologa, infine, insiste sulla prevenzione: “Ribadisco un punto importante: esiste il vaccino. I nostri studi hanno dimostrato un’associazione tra la mancata vaccinazione e un rischio maggiore di sviluppare sintomi prolungati dopo l’infezione. Ciò lascia desumere che il vaccino possa avere un effetto protettivo anche rispetto alle conseguenze a lungo termine di Covid-19, ma questa è ancora un’ipotesi in fase di studio, e dunque è prematuro trarre conclusioni definitive”.