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In Salute. Effetto placebo: un inaspettato alleato contro la dislessia?

È possibile sfruttare l’effetto placebo per trattare la dislessia? I risultati di un recente studio, condotto da un team di ricerca delle università di Padova e di Bergamo, sembrano suggerire questa possibilità. L’indagine, che ha coinvolto un campione di bambini e studenti universitari, ha anche testato sperimentalmente l’efficacia di un particolare tipo di occhiali filtranti (flickering lenses), in commercio da alcuni anni con la promessa di migliorare le capacità di lettura delle persone con dislessia evolutiva.
Parliamo di uno dei disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) più frequenti tra i bambini e le bambine in età scolare, con una prevalenza stimata tra il 5 e il 10%, a seconda dei diversi paesi. La dislessia comporta diverse difficoltà nella lettura e nella scrittura, indipendentemente dal livello di intelligenza o di istruzione, rischiando di ostacolare il rendimento scolastico fin dalle prime fasi del processo di alfabetizzazione, con ripercussioni anche sulle successive fasi del percorso di studio e sulla vita lavorativa.
“La dislessia è un disturbo del neurosviluppo causato da una molteplicità di fattori e viene solitamente trattato secondo una metodologia standardizzata”, spiega Sara Bertoni, ricercatrice al Dipartimento di scienze umane e sociali dell'università di Bergamo che collabora con il Developmental and cognitive neuroscience lab dell’università di Padova, che è l’autrice corrispondente dello studio. “Questi interventi sono mirati, in particolare, a sviluppare la capacità di associare determinati suoni alle lettere o agli insiemi di lettere che compongono le parole, tentando di migliorare anche la velocità di lettura.
Nonostante tali trattamenti vengano adottati nella stragrande maggioranza dei casi, non è mai stato indagato in che misura l’efficacia dimostrata dipenda effettivamente dagli interventi erogati e che ruolo giochi, invece, l’aspettativa positiva (o effetto placebo) dei bambini e le bambine, che confidano che gli appuntamenti con gli specialisti a cui li accompagnano i genitori li aiuteranno effettivamente a leggere meglio. L’effetto placebo può essere definito come la risposta automatica a stimoli positivi condizionati che producono reali cambiamenti nei comportamenti e negli esiti dei trattamenti”.
In altre parole, si tratta di un miglioramento di una condizione patologica indotto da stimoli emotivi e ambientali, più che dalla terapia in sé. Alcune ricerche hanno mostrato, ad esempio, che una relazione positiva ed empatica tra medico e paziente contribuisca a migliorare le condizioni di salute di quest’ultimo, aumentando anche l’efficacia della terapia, e che l’assunzione di farmaci privi di principio attivo – contenenti, ad esempio, solo sali o zuccheri – possa risultare efficace nel trattamento di disturbi gastrici, cardiaci o psichiatrici, oltre che per la riduzione del dolore.
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“Abbiamo testato un dispositivo che promette di aiutare le persone dislessiche nella lettura”, prosegue Bertoni. “Si tratta di particolari occhiali filtranti che permettono di manipolare la frequenza con cui l’occhio riesce a elaborare le informazioni in entrata. Da quando questo prodotto è stato messo in commercio, sono stati raccolti diversi pareri entusiasti. Eppure, non sono stati condotti studi scientifici per indagarne sperimentalmente l’efficacia.
Ci siamo domandati, quindi, se questi pareri positivi dipendano davvero dall’efficacia degli occhiali o piuttosto dal fatto che, avendoli acquistati a un prezzo molto alto, ci si aspetta che funzionino e si tende quindi a considerarli utili. Abbiamo perciò provato a indagare se l’uso degli occhiali garantisse effettivamente un vantaggio per chi ha difficoltà nella lettura.
Per farlo, abbiamo selezionato un campione di bambini e bambine con una diagnosi di dislessia evolutiva e un gruppo di studenti e studentesse universitari non diagnosticati, tutti convinti di possedere abilità di lettura nella media. Abbiamo poi suddiviso i membri di questo secondo gruppo in base alle effettive capacità di lettura (valutate attraverso un test).
Sia gli adulti che i bambini sono stati testati in tre condizioni differenti, in sessioni della durata di circa venti minuti. Nei partecipanti più giovani è stata valutata la capacità di lettura con gli occhiali spenti, con gli occhiali accesi (impostati per adattare la frequenza sulla base delle preferenze individuali) e in una condizione placebo. In quest’ultimo caso, i bambini e le bambine indossavano gli occhiali spenti, ma possedevano un’aspettativa positiva, perché gli sperimentatori avevano detto loro che quella era la condizione in cui si prevedevano i risultati migliori.
Gli adulti, invece, sono stati sottoposti a tre diverse valutazioni. Nella prima indossavano occhiali impostati su una frequenza di 60 Hz, teoricamente la peggiore, secondo alcuni esperimenti con luce pulsata, perché potrebbe spezzare l’elaborazione visiva delle parole scritte. Nel secondo caso, gli occhiali erano stati impostati su una frequenza di 120 Hz (più naturale o neutra, capace di interferire in misura minore con l’elaborazione visiva delle parole scritte). Anche nella terza condizione (quella placebo) gli occhiali erano stati settati a 120 Hz, ma era stata indotta un’aspettativa positiva: era stato detto ai partecipanti che la frequenza in questione fosse quella ottimale”.
I ricercatori hanno rilevato l’effetto placebo sia negli adulti che nei bambini. Tra questi ultimi, in particolare, quelli che avevano letto con gli occhiali spenti aspettandosi un significativo miglioramento leggevano più velocemente e con una minore quantità di errori rispetto a quelli che avevano utilizzato gli occhiali spenti senza aspettative.
“Abbiamo rilevato l’effetto placebo nei bambini e nelle bambine della scuola primaria, ma non in quelli delle medie”, precisa Bertoni. “Il motivo di questa discrepanza potrebbe essere dovuto al fatto che quelli più grandi sono stati esposti per più tempo ai trattamenti tradizionali per la dislessia e sono quindi più difficili da “imbrogliare”, nel senso che è più arduo indurre in loro quell’aspettativa positiva che poi innesca l’effetto placebo.
Abbiamo invece rilevato l’effetto placebo negli adulti che avevano scarse capacità di lettura e che indossavano gli occhiali regolati alla frequenza di 120 Hz”.
Come spiega Bertoni, è difficile trarre una conclusione definitiva per quanto riguarda la reale efficacia degli occhiali filtranti. “Questo dispositivo è stato progettato per un utilizzo continuativo nel tempo”, spiega la ricercatrice. “I nostri partecipanti li hanno indossati un’unica volta durante l’esperimento, senza trarne benefici significativi.
Abbiamo però osservato un cambiamento sulla lessicalità, ovvero il fenomeno per cui, normalmente, leggiamo con più facilità una parola conosciuta, rispetto a una che non esiste nel vocabolario, ma che suona plausibile, come ad esempio ‘delate’. Abbiamo scoperto, in particolare, che l’effetto lessicalità si riduceva nei bambini con dislessia che indossavano gli occhiali accesi, i quali tendevano ora a leggere le parole conosciute e le non-parole più o meno con la stessa facilità. Questa osservazione lascia ipotizzare che l’uso prolungato degli occhiali potrebbe portare dei benefici a lungo termine”, per quanto tale possibilità debba ancora essere testata sperimentalmente.
Il dato più significativo emerso dallo studio riguarda quindi il fatto che intervenire sulle aspettative positive e sul coinvolgimento emotivo delle persone che si sottopongono ai trattamenti tradizionali per la dislessia possa attenuare, in parte, le difficoltà nella lettura grazie all’effetto placebo.
“L’obiettivo di questa ricerca era quello di “accendere i riflettori” sulla possibilità che l’aspettativa positiva dell’effetto placebo influenzi l’efficacia dei trattamenti solitamente proposti per la dislessia evolutiva”, spiega Bertoni. “Crediamo sia importante capire se le aspettative e le emozioni dei pazienti possano avere un ruolo cruciale nel determinare i benefici o i mancati risultati di questi percorsi, il cui scopo – è utile ricordarlo – è quello di migliorare la vita delle persone con dislessia evolutiva; perciò, capire come sfruttare l’effetto placebo per massimizzare il risultato degli interventi potrebbe fornirci una carta in più da giocarci per raggiungere quest’obiettivo”.