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In Salute. Sclerosi multipla: “Oltre a una diagnosi precoce, serve una diagnosi corretta”

Diagnosi ancora più precoci e accurate, basate su evidenze biologiche. Ciò significa terapie tempestive e possibilità di modificare l’evoluzione della malattia nel lungo termine. A questo puntano i nuovi criteri McDonald per la diagnosi di sclerosi multipla, recentemente aggiornati e pubblicati su The Lancet Neurology. Rivolti a specialisti e specialiste del settore, offrono evidenti benefici a chi soffre della patologia.

A livello mondiale circa 2,8 milioni di persone convivono con la sclerosi multipla, di cui un milione e 200.000 in Europa e circa 144.000 in Italia. Il numero di donne colpite è quasi triplo rispetto agli uomini. Si tratta di una malattia neurodegenerativa che colpisce il sistema nervoso centrale, causata da un malfunzionamento del sistema immunitario: l’infiammazione prodotta dall’azione anomala delle nostre difese può danneggiare sia la mielina, cioè la sostanza che ricopre le fibre nervose, sia gli oligodendrociti ovvero le cellule specializzate nella sua produzione, che le fibre nervose stesse. Questo processo, detto di demielinizzazione, provoca lesioni nella mielina, dette placche, che si possono presentare ovunque nel sistema nervoso centrale, ma soprattutto nel cervelletto, nel midollo spinale e nei nervi ottici. Le placche possono lasciare vere e proprie cicatrici (sclerosi), quando evolvono dalla fase infiammatoria a quella cronica. 

Per capire dunque quali ricadute avranno sulla gestione dei pazienti i nuovi criteri McDonald, abbiamo intervistato Maria Assunta Rocca, componente del gruppo di lavoro e direttrice dell’unità di Neuroimaging della sostanza bianca del sistema nervoso centrale all’ospedale San Raffaele di Milano. 

Quali sono le novità più importanti introdotte dai nuovi criteri per la diagnosi di sclerosi multipla? 

Le novità più importanti sono essenzialmente due: innanzitutto viene introdotto un approccio orientato verso una diagnosi biologica della sclerosi multipla; in secondo luogo vengono proposti criteri diagnostici che possono essere applicati a livello mondiale, indipendentemente dalla regione o dalla nazione di origine di un determinato paziente. Ora, a differenza di quanto avveniva in precedenza, abbiamo a disposizione un unico set di criteri che può essere applicato sia nelle forme di sclerosi multipla recidivanti-remittenti, sia in quelle primariamente progressive. Gli stessi criteri, inoltre, valgono sia per i casi a esordio pediatrico, che per le persone adulte e con esordio più tardivo (dopo i 50 anni di età), indipendentemente dall’età di insorgenza della malattia.  

Una svolta importante, inoltre, è rappresentata dal fatto di poter diagnosticare la patologia anche in soggetti che non hanno mai manifestato sintomi, ma che presentano dati di laboratorio o di imaging compatibili con la sclerosi multipla, come nel caso della sindrome radiologicamente isolata. Fare diagnosi di sclerosi multipla anche in assenza di un episodio clinico significa di conseguenza poter iniziare precocemente un trattamento.  

Nei nuovi criteri diagnostici infine sono state apportate altre due modifiche sostanziali, frutto di anni di discussione. È stata introdotta innanzitutto la valutazione del danno al nervo ottico come indicatore di disseminazione spaziale della malattia. Inoltre, è stata inclusa una serie di misure di imaging considerate altamente specifiche per la sclerosi multipla, come la presenza del “segno della vena centrale” nelle lesioni e di lesioni con un orletto ipointenso nelle immagini pesate in suscettibilità magnetica. Questi elementi permettono di formulare una diagnosi più certa e precisa, nei pazienti in cui permangono dubbi diagnostici dovuti a fattori clinici o di laboratorio, oppure in quei casi che vedono un coinvolgimento ancora molto limitato del sistema nervoso centrale, ma nei quali tuttavia si punta a ottenere una diagnosi precoce.

 

La diagnosi precoce della sclerosi multipla dunque è un punto cruciale. Cosa significa per il paziente?

Premetto che un aspetto importante, oltre alla diagnosi precoce, è anche la diagnosi corretta, dato che l’ipersemplificazione che caratterizzava le precedenti formulazioni dei criteri diagnostici portava con sé il rischio di diagnosticare la sclerosi multipla a pazienti che presentavano lesioni alla risonanza magnetica, ma che in realtà non erano affetti dalla patologia. E questo evidentemente poteva determinare la prescrizione di farmaci non necessari, con problemi legati ai costi e agli eventuali effetti collaterali. 

Ora il vantaggio principale che ci si attende dall’adozione dei nuovi criteri è la possibilità di fare una diagnosi più accurata e ancora più precoce di malattia, favorendo così trattamenti tempestivi. I dati in letteratura dimostrano infatti che prima si inizia la terapia della persona con sclerosi multipla, più si riesce a modificare  la traiettoria di evoluzione della malattia nel lungo termine. 

 

La sclerosi multipla è una malattia che (per il momento) non può essere guarita, ma se ne può rallentare la progressione. Sono state introdotte nuove terapie negli ultimi anni? Qual è lo stato dell’arte?

Il panorama terapeutico è in continua evoluzione ed espansione. Di fatto ogni due o tre anni abbiamo a disposizione nuovi farmaci, nuove formulazioni: per esempio farmaci che fino all'anno scorso venivano somministrati per via endovenosa, ora possono essere impiegati per via sottocutanea. Questo ampio ventaglio di prodotti disponibili, complessivamente più di 20, complica il lavoro di neurologi e neurologhe, anche per l’esistenza di una regolamentazione che non consente di utilizzare  di volta in volta il farmaco ritenuto più idoneo in una specifica fase di malattia. 

In passato si era soliti distinguere tra farmaci di prima linea e di seconda linea (riferendosi ai trattamenti iniziali e a quelli successivi impiegati quando la malattia progredisce, ndr), ma questa ormai è una classificazione obsoleta. Oggi si parla piuttosto di farmaci ad alta efficacia e a media efficacia: va da sé che i primi hanno un effetto terapeutico più importante, ma possono esporre chi è in cura a rischi maggiori; i secondi, invece, possono essere meno efficaci ma di più facile gestione nel lungo termine. 

Ebbene, una serie di restrizioni regolatorie ci impone di utilizzare come approccio iniziale i farmaci a media efficacia in un’ampia percentuale di pazienti, mentre la nostra esperienza clinica ci insegna che somministrare fin da subito un farmaco ad alta efficacia può cambiare l’evoluzione della storia della malattia nel tempo, soprattutto quando sono presenti fattori di rischio ben caratterizzati. È fondamentale dunque poter utilizzare per ogni singola persona il medicinale giusto al momento giusto, e questa è una scelta che spetta esclusivamente a chi valuta il paziente. Al momento invece ciò non accade, proprio per l’esistenza di rigidi protocolli terapeutici: possediamo già molti strumenti che però non possiamo impiegare come vorremmo. A livello nazionale stiamo cercando di superare queste restrizioni, anche con un dibattito in corso con Aifa.

 

Oggi ci sono molti farmaci in fase di sperimentazione. Quali sono i più promettenti? 

Farmaci di cui stiamo sentendo parlare molto, e che probabilmente saranno disponibili nel breve termine, sono gli inibitori della proteina BTK (tirosina chinasi di Bruton). Agiscono sia in periferia che a livello del sistema nervoso centrale, e su meccanismi diversi, sia nell'infiammazione acuta che nell'infiammazione cronica. Secondo recenti studi pubblicati su The new England Journal of Medicine, si tratta di farmaci che hanno mostrato un effetto anche nelle forme progressive di malattia con una certa attività di malattia: sarebbe la prima classe di farmaco che potremmo utilizzare in questo tipo di pazienti, per i quali oggi le prospettive terapeutiche sono ancora molto limitate. 

Altri farmaci in fase di sperimentazione mirano a veicolare molecole direttamente nel sistema nervoso centrale, per agire più efficacemente nei meccanismi della malattia. Altri ancora appartengono alla categoria dei rimielinizzanti: oltre a bloccare l’infiammazione, hanno lo scopo di promuovere la riparazione del danno presente sempre nel sistema nervoso centrale. 

Parallelamente, sono in corso i primi studi clinici, soprattutto di fase 1, sull’utilizzo delle terapie CAR-T nella sclerosi multipla. Queste terapie, già usate in ematologia per il trattamento di alcuni tumori del sangue, hanno lo scopo di “resettare” il sistema immunitario tramite l’eliminazione selettiva dei linfociti B dannosi, e cercare così di modificare il decorso della malattia. 

 

I farmaci in generale possono avere effetti diversi nelle persone di sesso femminile e in quelle di sesso maschile. Si parla in questo senso di farmacologia genere-specifica. La ricerca nel campo della sclerosi multipla tiene conto di questi aspetti? 

La ricerca sui nuovi farmaci per la sclerosi multipla non tiene espressamente conto della differenza di genere, anche se c'è sicuramente uno sforzo in atto nel cercare di includere questo tipo di valutazioni in trial futuri. La sclerosi multipla colpisce molto più frequentemente le donne rispetto agli uomini, per cui nella maggior parte delle sperimentazioni cliniche la percentuale di pazienti arruolati di sesso femminile è maggiore rispetto alla percentuale di sesso maschile. Nonostante ciò non si va ad analizzare in modo specifico l'effetto del farmaco o eventuali interazioni in base all'assetto ormonale o al genere. 

Diversi fattori correlati al genere poi, come gravidanza, allattamento e variabili simili, portano all'esclusione dall'arruolamento nei trial clinici. Le informazioni per questi specifici gruppi di popolazione spesso risultano carenti, tanto che inizialmente la maggior parte dei prodotti non era approvata per l’uso nelle donne in gravidanza o che pianificavano di diventare madri a breve termine. In seguito una serie di studi di real world (cioè raccolti nell’ambito dell’esperienza clinica quotidiana, al di fuori dei trial clinici controllati, ndr) ha permesso di colmare questi deficit di conoscenze e di avere informazioni sulla possibilità di usare o meno un farmaco in questo particolare periodo della vita: oggi sappiamo che la donna può continuare tranquillamente ad assumere alcuni tipi di farmaco per tutto il periodo della gestazione, mentre altri vengono sospesi durante la pianificazione o a un certo trimestre di gravidanza. 

 

I farmaci talora hanno effetti collaterali importanti. Nel caso della sclerosi multipla, la ricerca scientifica come ne tiene conto?

I trial clinici tradizionali sono solitamente di breve durata e valutano il farmaco su un numero relativamente ristretto di pazienti. Dopo l’approvazione del nuovo medicinale, segue invece una fase in cui vengono valutati gli effetti del prodotto per periodi più lunghi e su un numero decisamente più ampio di pazienti (fase IV, ndr).  

Per questa ragione, molti effetti collaterali che stiamo riscontrando nella pratica clinica non li troviamo descritti nei trial iniziali. Diventa quindi molto importante monitorare costantemente eventuali effetti indesiderati, anche per gestire al meglio eventuali cambiamenti di terapia e decidere quando introdurre i diversi farmaci nella storia del paziente. Queste informazioni su popolazioni più ampie di persone che soffrono di sclerosi multipla derivano soprattutto da studi di real world e non dalle classiche sperimentazioni cliniche.

 

Gli studi epidemiologici dimostrano che negli ultimi anni la sclerosi multipla è in aumento, anche nel nostro Paese. Quali sono le ragioni?

Un aspetto fondamentale è quello da cui siamo partiti: nel tempo sono cambiati e sono stati perfezionati i criteri diagnostici che ora possono essere applicati su larga scala e non solo nei centri di eccellenza. Questo ha determinato un aumento delle diagnosi. 

In secondo luogo, sono state definite in modo più accurato tutte le patologie che entrano in diagnosi differenziale con la sclerosi multipla (cioè quelle malattie che devono essere escluse per poter parlare di sclerosi multipla, ndr). Due delle principali sono la neuromielite ottica, che ormai conosciamo da dieci anni, e la sindrome di anticorpi anti-MOG i cui criteri diagnostici sono stati pubblicati due anni fa. Avere una migliore classificazione di queste diverse patologie consente di effettuare diagnosi più precise e di identificare con maggiore certezza i casi di sclerosi multipla, il cui numero dunque è risultato in aumento negli ultimi anni.

Un altro aspetto da considerare è il fattore ambientale. Secondo alcuni studi, infatti, nelle aree con elevati livelli di inquinamento atmosferico l’incidenza di sclerosi multipla risulterebbe maggiore.  

Qualche considerazione va fatta anche sull’alimentazione: al momento non esiste una risposta univoca su quale dieta sia più indicata o su quali alimenti possano avere un effetto protettivo o, al contrario, pro-infiammatorio in caso di sclerosi multipla. Tuttavia, sono in corso numerosi studi che stanno cercando di approfondire questo aspetto.

Sono da considerare, infine, i fattori ormonali. In questo caso si sta valutando, per esempio, se la menopausa – con le variazioni dell’equilibrio tra estrogeni e progesterone – possa essere un fattore che predispone o aggrava la malattia. 

Il quadro dunque è sicuramente molto ampio e complesso e i fattori da considerare diversi. A mio avviso, i principali che hanno contribuito all’aumento dei casi di sclerosi multipla sono le citate modifiche dei criteri diagnostici e fattori ambientali e fattori legati a cambiamenti nello stile di vita. 

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