Dopo oltre due anni dall'inizio della pandemia di Covid-19, abbiamo imparato molto sul virus SARS-CoV-2; ad esempio, oggi sappiamo i meccanismi attraverso i quali il virus penetra nell’organismo e danneggia i polmoni provocando una polmonite ‘interstiziale’: al contrario, sappiamo ancora poco sul cosiddetto long Covid o post Covid, di cui spesso si parla e che in parte sta generando anche un discreto allarme. “Innanzitutto, non vi è consenso nemmeno sulla sua definizione – spiega a Il Bo Live Paolo Spagnolo, docente e medico presso l’Unità Operativa Complessa di Pneumologia dell’Università di Padova e dell’Azienda Ospedaliera di Padova –. Secondo il Center for Disease Control and Prevention (CDC) americano il long Covid è la continuazione dei sintomi per almeno quattro settimane dopo l'infezione, mentre per l'Organizzazione Mondiale della Sanità esso si verifica di solito tre mesi dopo l'infezione e dura per almeno due mesi. I sintomi più comuni sono comunque la fatica, la mancanza di fiato e la cosiddetta ‘brain fog’, come perdita di memoria e smarrimento. Non da ultimo, non vi è consenso su come trattare il long Covid”.
Di quanti casi parliamo? Quale sarebbe l’incidenza?
“La prevalenza del long Covid resta difficile da calcolare e i primi dati a riguardo hanno probabilmente sovrastimato il problema. Tuttavia, il CDC ritiene che un americano su dieci abbia sviluppato i sintomi del long Covid più di un mese dopo l'infezione, mentre l'Office for National Statistics (ONS) inglese stima che fino a marzo 2022 1,7 milioni di persone, ovvero il 2,7% della popolazione, abbiano avuto il long Covid, 1,1 milioni dei quali con sintomi debilitanti quali affaticamento, mancanza di respiro e dolori muscolari. In pratica, una sorta di pandemia dopo la pandemia. Anche stime così attente possono tuttavia nascondere imprecisioni. Ad esempio, stanchezza e dolori muscolari possono provenire da numerose altre cause. A questo proposito, uno studio dell'ONS ha rivelato che almeno uno dei sintomi più comuni del Covid era presente da 12 a 16 settimane dopo l'infezione nel 5% delle persone infettate dal SARS-CoV2, ma anche nel 3,4% di un gruppo di controllo che non era stato infettato. Questo studio suggerisce pertanto che il long Covid potrebbe in realtà comprendere un ampio ed eterogeneo gruppo di sindromi spesso non legate al virus SARS-CoV2”.
Quanto dobbiamo essere preoccupati?
“Diciamo che al momento è meglio tenere un atteggiamento prudente ma non allarmista. È noto che non solo il Covid ma numerose malattie infettive possono causare danni permanenti anche gravi ai polmoni e al cuore. Inoltre, alcuni casi di long Covid sono in realtà ‘sindromi post-rianimazione’, che possono colpire chiunque venga ricoverato in un reparto di terapia intensiva. Chi ne soffre lamenta una grave debolezza fisica, danni ai polmoni e problemi di memoria e attenzione. Allo stesso modo, la stanchezza cronica potrebbe rappresentare una forma di sindrome post-virale piuttosto che long Covid. Infine, alcuni pazienti che sembrano avere il long Covid potrebbero in realtà avere una infezione persistente ma subclinica, che il sistema immunitario non è ancora riuscito a eliminare”.
Il vostro gruppo di ricerca è stato tra i primi al mondo a porre l’attenzione sul rischio di complicanze polmonari a lungo termine da infezione da SARS-CoV2.
“Siamo partiti dall’osservazione che alcuni pazienti con polmonite da Covid sviluppavano una fibrosi del polmone nell’arco di giorni o settimane, quando si tratta di una patologia cronica che normalmente richiede mesi se non addirittura anni per manifestarsi clinicamente. Uno studio autoptico dell’Ospedale Universitario di Padova, a cui il nostro gruppo ha partecipato, ha dimostrato che la ‘fibrosi polmonare da Covid’ è una patologia prevalentemente infiammatoria, a differenza delle forme classiche di fibrosi polmonare in cui la componente infiammatoria è minima o assente, e quindi molto spesso responsiva alla terapia steroidea. Restava da chiarire quali fossero i fattori predisponenti allo sviluppo di fibrosi post-Covid persistente. A tal fine, abbiamo valutato per una durata di sei mesi e con controlli clinici, funzionali (spirometrici) e radiologici (TC del torace ad alta risoluzione) trimestrali 220 pazienti ospedalizzati per polmonite da Covid-19 presso l’Ospedale di Padova tra giugno e dicembre 2020”.
Cosa avete trovato?
“A sei mesi dalla dimissione nell’80% dei pazienti (175/220) abbiamo osservato una risoluzione completa delle alterazioni radiografiche precedentemente segnalate. I principali fattori di rischio per la persistenza di alterazioni radiografiche presenti nel restante 20% dei pazienti (45/220) erano l’età avanzata, la gravità della polmonite, il livello di intensità di cura, espresso in termini di fabbisogno di ossigeno, e di conseguenza la durata dell’ospedalizzazione. Questi risultati, che sono stati pubblicati nel 2021 e sono in linea con quelli della letteratura internazionale, sono stati confermati da un successivo e più ampio studio che verrà pubblicato a breve nel quale abbiamo valutato la prevalenza di sequele polmonari a 12 mesi dalla dimissione in 296 pazienti ricoverati presso l’Ospedale di Padova per polmonite da Covid-19”.
Cosa ci dice questo nuovo studio che avete condotto?
“Alterazioni radiologiche persistenti alla TAC del torace ad alta risoluzione sono risultati presenti solo nel 7% dei pazienti (21/296) e occupavano in media l’11% circa del volume totale del polmone. Anche in questo caso, i principali fattori di rischio per la persistenza di alterazioni radiografiche erano la gravità della polmonite, il livello di intensità di cura (espresso in termini di fabbisogno di ossigeno) e la durata dell’ospedalizzazione. C’è inoltre da considerare che in una piccola minoranza di pazienti le alterazioni radiografiche polmonari potrebbero essere preesistenti al Covid, quindi misconosciute, piuttosto che reali sequele dell’infezione. Infine, occorre sottolineare che 12 mesi rappresentano un intervallo di tempo relativamente breve per il follow-up dei casi più gravi di polmonite da Covid e non si può escludere – come osservato in passato con virus molto simili al SARS-CoV2, quali il virus della SARS (Sindrome Respiratoria Acuta Grave) e il virus della MERS (Sindrome Respiratoria Medio-Orientale) – che le lesioni polmonari possano migliorare fino a due anni dalla comparsa della polmonite interstiziale”.
In conclusione possiamo stare più tranquilli, ma non troppo.
“Le nostre conoscenze sul long Covid così come sulle conseguenze polmonari a lungo termine della polmonite da Covid-19 sono piuttosto limitate. Tuttavia, occorre ricordare che la pandemia è cominciata ‘solo’ 2 anni fa: occorrono pertanto studi più ampi e con un follow-up clinico, funzionale e radiologico più lungo per comprendere quali pazienti sono predisposti a sviluppare il long Covid e, soprattutto, la fibrosi polmonare persistente post-polmonite da SARS-CoV2”.