
Di recente Legambiente ha presentato a Roma il suo rapporto periodico sullo stato delle bonifiche dei siti contaminati, come prodotto della campagna di studio e mobilitazione dal titolo “Ecogiustizia subito: nel nome del popolo inquinato”.
La particolarità da sottolineare subito è che la campagna è stata svolta da Legambiente insieme ad altre cinque associazioni non prioritariamente ambientaliste: ACLI, AGESCI, ARCI, Azione Cattolica Italiana e Libera; si tratta di una scelta motivata dalla consapevolezza che nelle aree inquinate sono messi in discussione i diritti umani e di cittadinanza oltre al diritto a vivere in un ambiente sano e in buona salute.
Dalla fine del 2024 a aprile 2025 la campagna ha svolto iniziative in sei luoghi simbolo delle mancate bonifiche, Casale Monferrato, Taranto, Marghera, Priolo-Augusta, Terra dei fuochi, Brescia e Napoli, insieme a tante associazioni, reti sociali, comitati locali e istituzioni pronte a mobilitarsi per la giustizia ambientale e siglare un “Patto di comunità per l’Ecogiustizia”.
30 anni di leggi inattuate
Il Rapporto, liberamente scaricabile, fa il punto sullo stato delle bonifiche ricavato da dati del Ministero dell’ambiente (MASE) e soprattutto consegna riflessioni e spunti sulle motivazioni delle estese inapplicazioni di leggi dello Stato che da oltre 25 anni hanno iniziato a definire siti da bonificare sulla base di parametri di contaminazione ambientale di terreni e acque di falda.
Nella tradizione delle associazioni ispirate e praticanti l’ambientalismo scientifico, il Report è di grande interesse per chi si vuole impegnare basandosi su dati rigorosi, dai cittadini agli scienziati agli amministratori più consapevoli, uniti dalla convinzione che le politiche debbono essere basate sulla conoscenza, senza tentennamenti di fronte alle ondate negazioniste basate su post-verità oscurantiste.
Il Rapporto ricorda che la prima svolta normativa arrivò, quasi 30 anni fa, con il decreto Ronchi (D.Lgs. 22/1997), che definiva per la prima volta interventi di messa in sicurezza e bonifica, seguito dalla Legge 426/1998 che individua i primi 15 Siti di Interesse Nazionale per le bonifiche, SIN.
Successivamente, il Testo Unico Ambientale (D.Lgs. 152/2006) definiva le bonifiche sulla base dell’analisi di rischio sito-specifica, superando l’approccio basato su soglie tabellari.
Tra il 2000 e il 2008 i SIN crescevano di numero fino a 57 grazie a nuovi inserimenti normativi. Poi la Legge 134/2012 ridefinisce i criteri per l’individuazione dei SIN, privilegiando la presenza di impianti industriali ad alto impatto. Alcuni siti, come la “Terra dei Fuochi” e Bussi sul Tirino, vengono declassati a Siti di Interesse Regionale (SIR), riducendo i SIN a 39. Negli ultimi anni si aggiungono due nuovi SIN e il rientro del bacino del fiume Sacco.
La situazione attuale
I 40 SIN attuali coprono oltre 226.000 ettari ma solo il 24% del suolo è stato caratterizzato: il 5% ha progetti di bonifica approvati e solo il 6% è effettivamente bonificato. I dati sulle falde sono ancora più allarmanti, tanto che viene stimato che al ritmo attuale serviranno decenni per completare le bonifiche.
Anche a livello europeo la situazione è critica: su 2,8 milioni di siti contaminati, solo l’8,3% è bonificato.
L’urgenza di intervenire nelle aree italiane “ad elevato rischio di crisi ambientale”, dove vivono circa 6,2 milioni di persone deriva sia dai dati ambientali anomali sia dal carico inaccettabile di malattia ad essi connessi.
Il VI rapporto dello studio nazionale SENTIERI, pubblicato nel 2023, evidenzia come queste popolazioni siano più fragili per l’esposizione cronica agli inquinanti, risultando anche più vulnerabili a eventi climatici estremi e malattie infettive.
Tra il 2013 e il 2017 sono risultati 1.668 decessi annui in eccesso e oltre 11.000 ricoveri ospedalieri in più nei 46 SIN esaminati. Anche per bambini e giovani emerge un aumento dell’8% di ricoveri nel primo anno di vita. Studi epidemiologici di tipo eziologico, focalizzandosi proprio sulla relazione causa ed effetto, realizzati in numerosi SIN mettono in risalto rischi in piccole aree a carico di specifiche comunità che non emergono adottando uno sguardo di area vasta, com’è il caso dell’eccesso di mortalità più elevato nel quartiere Tamburi rispetto al resto dell’area del SIN di Taranto-Statte.
Nonostante l’evidenza scientifica, l’ascolto e le risposte politiche sono spesso minimizzanti o negazioniste, ostacolate anche dalla richiesta eccessiva di prove del nesso di causalità. È necessaria una governance multilivello, capace di intervenire su tutta la catena che collega inquinamento, esposizione e malattia.
Il rapporto sottolinea come il legame tra bonifiche e legalità rimane una sfida aperta: l’analisi dell’Osservatorio Ambiente e Legalità di Legambiente rivela che, dal 2015 al 2023, il reato di “omessa bonifica” è stato contestato solo 35 volte su 241 controlli, con 50 denunce e 7 arresti.
Quali sono i limiti, perché è così difficile intervenire
Sul piano delle opzioni tecnico-scientifiche, il contributo di Marco Petrangeli Papini, del Dipartimento di Chimica, Sapienza Università di Roma, argomenta con chiarezza come a fronte dei molti strumenti avanzati per mappare la contaminazione e le molte tecnologie efficaci e sostenibili (come i processi di ossidazione chimica in situ, desorbimento termico, nanomateriali, flushing ecocompatibile, etc), manchi un adeguato approccio normativo e culturale. In sostanza il sistema italiano fatica a tradurre il progresso scientifico in strategie operative, impedendo il risanamento e il riutilizzo dei siti contaminati.
L’analisi delle criticità strutturali del sistema italiano delle bonifiche, evidenzia come l’approccio procedurale adottato dal nostro Paese – di tipo prescrittivo e rigido – sia inadeguato rispetto alle esigenze di recupero dei siti contaminati e al progresso tecnico-scientifico internazionale. Il modello normativo prevede un iter relativamente semplice, articolato in quattro fasi: caratterizzazione del sito, analisi del rischio, predisposizione del piano di bonifica o messa in sicurezza, ed esecuzione dei lavori. Tuttavia, sebbene la legge preveda un completamento delle prime tre fasi entro 18 mesi, nella pratica questi tempi non vengono rispettati.
Sulle motivazioni delle difficoltà e anomalie del processo di bonifica, è importante fare qualche richiamo.
Grazie soprattutto al contributo di Emanuela Bozzini, sociologa dell’Università di Trento, sono individuati diversi fattori di costrizione o blocco dell’iter di bonifica.
Il primo riguarda l’attribuzione di responsabilità alle imprese, basata sul principio europeo “chi inquina paga”. In Italia questo principio viene interpretato in modo causale, creando difficoltà nell’attribuire le responsabilità soprattutto nei casi di inquinamento storico, generando un alto numero di controversie legali.
Il secondo elemento critico è l’elevata frammentazione dei procedimenti amministrativi: ogni azienda è responsabile per la propria area, e ciò comporta una mole enorme di pratiche, che richiedono continue consultazioni tra il Ministero, gli enti locali e regionali, rallentando l’intero processo. Le numerose Conferenze dei Servizi, necessarie per autorizzare gli interventi, costituiscono un ulteriore collo di bottiglia.
Un terzo ostacolo è rappresentato dalle relazioni tra il Ministero e i soggetti privati: ogni progetto è spesso soggetto a modifiche o prescrizioni che, pur nate con l’intento di garantire efficacia e uniformità, indicano una debolezza strutturale nel dialogo tra pubblico e privato.
Infine, le indagini giudiziarie contribuiscono spesso ai ritardi: gli inevitabili sequestri dei siti da parte della magistratura, pur teoricamente compatibili con la prosecuzione delle bonifiche secondo la normativa, nella pratica possono paralizzare le operazioni per lunghi periodi, come dimostrano i casi dei SIN di Brescia, Mantova e Napoli.
Passare da problema a opportunità concreta per il rilancio dei territori
Nel complesso, il sistema delle bonifiche in Italia mostra gravi difficoltà operative e necessita di una profonda revisione normativa, amministrativa e gestionale.
Il Rapporto propone una serie di riflessioni e azioni concrete per superare l’attuale impasse che caratterizza il sistema italiano delle bonifiche ambientali, soprattutto nei Siti di Interesse Nazionale (SIN). A distanza di decenni dall’avvio delle politiche di risanamento, manca ancora una strategia nazionale chiara, integrata e condivisa. Finora si è operato secondo un approccio frammentato e a tappe, in cui prima si interviene tecnicamente sui siti contaminati e solo in seguito, spesso con ritardi e incertezze, si affrontano temi come la riconversione industriale, le compensazioni ambientali e lo sviluppo dei territori.
La proposta è quindi quella di adottare una strategia complessiva che integri diversi elementi: risanamento ambientale, tutela della salute pubblica, riconversione produttiva, semplificazione normativa, uso delle migliori tecnologie disponibili, coinvolgimento attivo dei cittadini, rafforzamento delle competenze nelle istituzioni e maggiore trasparenza.
Legambiente e le altre associazioni danno le loro priorità: dotare il MASE (Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica) delle risorse umane e finanziarie adeguate; superare l’approccio meramente prescrittivo in favore di uno gestionale, più efficace e realistico anche nei tempi; armonizzare e rendere pubblici gli studi epidemiologici nei territori contaminati; chiarire e applicare in modo efficace il principio “chi inquina paga”; incentivare l’uso di tecniche di bonifica innovative e sostenibili, soprattutto in situ; rendere accessibili e trasparenti dati e informazioni su SIN, SIR e altri siti inquinati; istituire tavoli territoriali permanenti e partecipati con tutti gli attori coinvolti; avviare finalmente anche l’analisi e la bonifica delle aree marine, ancora in gran parte inesplorate.
In sintesi, si tratta di trasformare le bonifiche da problema irrisolto in opportunità concreta per il rilancio ambientale, economico e sociale dei territori. Una opzione niente affatto utopistica ma che necessita di un cambio culturale e scientifico a favore di un modello in cui i costi dei danni ambientali, della perdita di vite umane e per la cura delle malattie, della perdita di valore economico di territori e beni immobili, non sono visti come esternalità negative. Per questi motivi gli studi finalizzati alla quantificazione dei rischi e dei benefici e sull’avanzamento tecnologico mantengono una importanza fondamentale, meglio se fortemente partecipati dai portatori di interessi.