CULTURA

Ma la storia non è un algoritmo

Lo studio Epidemiology Models Explain Rumor Spreading During France’s Great Fear in 1789, pubblicato su Nature, propone una lettura aggiornata di un celebre episodio della Rivoluzione francese – la “Grande Paura”, l’ondata di panico e voci incontrollate che si diffuse dalle campagne di Parigi a gran parte della Francia tra luglio e agosto del 1789 – utilizzando strumenti tipici dell’epidemiologia, normalmente utilizzati per descrivere la diffusione delle malattie infettive. Dopo aver raccontato in un articolo i risultati della ricerca, ne esploriamo ora le implicazioni scientifiche e metodologiche con Pierpaolo Cesaroni, docente di Filosofia politica al Dipartimento FISPPA dell’Università di Padova.

Professore, quanto possono essere utili i modelli matematici soprattutto quelli elaborati in discipline diverse, come l’epidemiologia nello studio delle scienze sociali? E quali aspetti restano invece affidati all’analisi qualitativa?

La domanda è molto ampia, perché tocca un problema discusso da tempo, almeno dal tardo Settecento, e tuttora aperto. Vi è una tesi di fondo che orienta molti studi di questo tipo: l’idea che applicare modelli matematici ai fenomeni sociali consenta finalmente alle scienze sociali di raggiungere la piena “scientificità”, liberandosi dalle dispute metodologiche che le accompagnano fin dalle origini. Tale convinzione si fonda, spesso implicitamente, sull’assunto che le cosiddette scienze “dure” rappresentino il modello di ogni conoscenza scientifica.

È innegabile che la modellizzazione abbia prodotto risultati interessanti in sociologia, storia, economia, scienza politica o archeologia; tuttavia l’oggetto di studio – i fenomeni psicologici, sociali, politici – mostra una certa resistenza a lasciarsi catturare completamente da questi schemi. Lo prova il riemergere ciclico, all’interno delle scienze sociali, del conflitto tra approcci “quantitativi” e “qualitativi”. Un conflitto che forse è il sintomo di un problema più profondo: la specificità dei fenomeni sociali rispetto a quelli fisici.

Non si tratta quindi di accettare o rifiutare le modellizzazioni, ma di chiedersi cosa significhi usarle in un campo oggettivamente diverso da quello delle scienze naturali. Senza un’indagine concettuale su questa specificità, il rischio è di produrre rappresentazioni distorte. Sullo sfondo emerge una questione ancora più ampia: esiste davvero un solo modo di “fare scienza”, un metodo universale applicabile a qualsiasi oggetto? La storia delle scienze, se condotta con rigore, tende a smentire questa ipotesi.


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Nel caso della Grande Paura del 1789, lo studio di Nature non si limita a un’analisi quantitativa: propone di applicare modelli matematici a un fenomeno storico. Che tipo di riflessioni suscita questo approccio?

Lo studio ha certamente un’importanza notevole, anche solo per la sede in cui è pubblicato. Fa però qualcosa di più che applicare un modello matematico: suggerisce che un fenomeno storico-sociale possa essere studiato con gli strumenti dell’epidemiologia. In altre parole, non adotta un metodo “generale”, bensì estende un preciso campo disciplinare – quello biologico-medico – allo studio di un oggetto sociale. E da un punto di vista intuitivo, il mondo sociale è effettivamente più vicino al biologico che non al fisico.

Da un punto di vista epistemologico trovo il risultato molto stimolante, anche se avrei voluto leggere, per così dire, “la parte che manca”: una volta mostrato che i modelli epidemiologici possono descrivere la propagazione della Grande Paura, quali conseguenze dobbiamo trarne a livello concettuale? Gli autori intendono sostenere che le rappresentazioni collettive siano vere e proprie “infezioni sociali”? Oppure si tratta di un fenomeno diverso, che obbedisce però a regolarità simili?

L’uso di concetti come “infezione” o “contagio” va preso in senso letterale o metaforico? Non sono domande nuove: già tra Otto e Novecento autori come Gabriel Tarde e Gustave Le Bon parlavano di “contagio” delle idee o delle emozioni, e furono criticati da Durkheim e dalla sua scuola. Lo studio di Nature sembra suggerire che l’efficacia della modellizzazione confermi la validità dell’ipotesi concettuale – cioè una continuità tra malattie e rappresentazioni collettive. Ma non è detto che sia così: potrebbe trattarsi di un effetto ottico, dovuto alla scelta iniziale di trattare i due fenomeni come equivalenti.

Questo tipo di analogia può avere conseguenze concrete?

Assolutamente sì. Pensiamo alla funzione sociale dell’epidemiologia e alle sue capacità predittive, che permettono alle società moderne di adottare misure di prevenzione efficaci – come abbiamo visto negli ultimi anni. Se estendiamo questo schema al campo sociale, dovremmo forse immaginare nel futuro delle “politiche di distanziamento” per evitare il contagio delle fake news?

Non è una provocazione banale: le categorie concettuali che utilizziamo per interpretare la realtà possono avere effetti reali. È per questo che, dal punto di vista epistemologico, il maggior valore di questo studio non sta tanto nei risultati che raggiunge, quanto nei problemi che apre.

I modelli matematici e i big data aprono nuove prospettive per comprendere la società, ma solo se dialogano con la tradizione critica e interpretativa delle scienze sociali

Veniamo ai dati. Si può dire che esistano “big data” anche nella storia moderna, non solo in epoca contemporanea?

Sì, la raccolta di dati quantitativi sulla popolazione e sul territorio ha una storia molto lunga. Forse il primo a concepirne un uso su larga scala fu l’inglese William Petty a metà Seicento, con la sua “aritmetica politica”. Questo processo è legato alla nascita dei nuovi saperi di governo – quelli che Michel Foucault ha chiamato “saperi governamentali” – che fornivano agli Stati centralizzati strumenti di conoscenza e amministrazione.

Nel XVIII secolo, in Germania, nasce la Statistik come disciplina interna alle scienze dello Stato. Nell’Ottocento, con la nascita delle scienze sociali e la “questione sociale” legata al capitalismo industriale, la raccolta di dati diventa massiccia, soprattutto in Inghilterra. In Italia studiosi come Pierangelo Schiera e Merio Scattola hanno ricostruito con rigore questa storia. Anche in questo caso però un’indagine sui “big data” del passato non può prescindere da un’epistemologia storica che tenga conto della genesi dei concetti e degli intrecci fra le diverse scienze.

Un ultimo punto: studi come questo coinvolgono fisici, epidemiologi, economisti, filosofi. Quali sono, secondo lei, i limiti e le potenzialità dell’interdisciplinarietà?

L’interdisciplinarietà è oggi molto valorizzata, e anche la nostra Università cerca costantemente di favorirla. La storia delle scienze mostra che gli incroci tra discipline, i prestiti concettuali e i tentativi di applicare metodi nati altrove hanno spesso prodotto grandi avanzamenti. Non si tratta tuttavia di un processo lineare: in molti casi ciò che si è imparato deriva più dai fallimenti che dai successi, nella misura in cui questi hanno permesso di chiarire meglio la specificità dei diversi domini epistemici.

A mio avviso, l’interdisciplinarietà è più feconda quando non mira a unificare i saperi, ma a stimolare un esercizio riflessivo sulla specificità di ciascuno. Solo così può fornire una base concettuale rigorosa alla loro connessione: riconoscendo tanto i punti di prossimità quanto le differenze strutturali.

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