SCIENZA E RICERCA

Decennio del mare. Quale governance per salvare gli oceani?

Tra gli indicatori chiave dell’emergenza climatica, al centro della Cop 27 che si sta svolgendo a Sharm El-Sheikh in Egitto, accanto a voci come la temperatura media globale, i livelli di CO2 in atmosfera e la progressione dello scioglimento dei ghiacciai, ci sono anche le condizioni degli oceani.

La salute del mare è infatti in declino, logorata dalla pesca eccessiva, soffocata dalla plastica e da altri inquinanti, schiacciata dal peso di un compito tanto prezioso quanto gravoso, come quello di arginare la portata dei cambiamenti climatici globali assorbendo, come un’enorme spugna, oltre un terzo dell’anidride carbonica di origine antropica che altrimenti verrebbe immessa in atmosfera.

A peggiorare il quadro c’è il fatto che conosciamo troppo poco dei nostri oceani: sebbene occupino oltre il 70 per cento della superficie della Terra, solo poco più di un quinto delle acque del nostro pianeta è stato finora mappato. Gli abissi e i fondali marini sono dunque ancora un luogo misterioso, non solo nell’immaginario comune ma anche per il mondo scientifico e questo ha conseguenze importanti rispetto alla possibilità di comprendere a fondo gli effetti dei cambiamenti climatici e l’impatto sulle specie che abitano il mare.

Inaugurando la Conferenza delle Nazioni Unite sugli Oceani, che si è svolta in estate a Lisbona, António Guterres, Segretario Generale dell’Onu, aveva esortato a “invertire la rotta perché abbiamo dato i mari per scontato e oggi ci troviamo di fronte a un’emergenza”. “Oceani in salute e produttivi sono vitali per il nostro futuro condiviso”, aveva affermato Guterres ricordando, tra le altre cose, che più della metà dell'ossigeno che respiriamo proviene proprio dagli oceani e che oltre un miliardo di persone dipende dagli oceani per il proprio sostentamento.

La conferenza di Lisbona, organizzata al fine di mobilitare la comunità internazionale a impegnarsi nel trovare soluzioni sostenibili per la conservazione, la protezione e l’uso responsabile delle risorse marine, dando così attuazione all’obiettivo 14 dell’Agenda 2030, è stata la seconda della storia (la prima si è tenuta nel giugno del 2017 a New York) e la sua importanza era collegata anche al fatto che è stato un momento di confronto istituzionale e scientifico all’interno del decennio del mare, istituito dall’Onu e dall’Unesco per la salvaguardia degli oceani.

Guidato dal claim "la scienza di cui abbiamo bisogno per l’oceano che vogliamo", il decennio del mare ha identificato dieci sfide a cui cercare di dare una risposta entro il 2030 consapevoli del fatto che stiamo parlando dell’ecosistema più vasto al mondo, in grado di assicurare (finché è in salute) un elevatissimo contributo in termini di mitigazione dei cambiamenti climatici e di risorse e servizi ecosistemici per l'umanità. 

A rendere più complesse le attività di protezione degli oceani e il mantenimento della biodiversità che li contraddistingue è la vastità delle aree che ricadono al di fuori delle singole giurisdizioni nazionali e in cui tutti gli Stati hanno il diritto, per esempio, di pescare, navigare e fare ricerca. Parliamo di tutti quegli spazi che si trovano oltre le 200 miglia nautiche dalla costa, quasi i due terzi degli oceani, zone non regolamentate e dunque ancora più vulnerabili e a rischio di sfruttamento.

Il tentativo più recente di garantire un trattato internazionale per l'Alto mare è fallito ad agosto dopo due settimane di trattative presso la sede Onu a New York. Il percorso verso un documento condiviso e vincolate è partito da lontano, una quindicina di anni fa, ma sebbene siano stati compiuti alcuni progressi le distanze tra i Paesi sono risultate incolmabili, soprattutto sul versante della distribuzione dei possibili benefici derivanti dallo sfruttamento delle risorse in alto mare. Il risultato è che ad oggi solo poco più dell'1% delle acque internazionali è protetto e siamo ben lontani dalla tutela, entro il 2030, del 30% degli oceani. Un traguardo che secondo gli scienziati è assolutamente indispensabile per una reale tutela della biodiversità marina, considerando anche che l'alto mare ospita ecosistemi essenziali come i coralli delle acque profonde e fornisce rotte migratorie per squali e balene.

Da un lato abbiamo quindi il problema di una conoscenza incompleta degli oceani e dall'altro quello di un mancato accordo globale per garantire una adeguata protezione delle aree d'alto mare dove assistiamo a una grave perdita di biodiversità, a ritmi che appaiono inarrestabili a causa di una molteplicità di stress di origine antropica.

Un articolo recentemente pubblicato su Plos One, riflettendo sulle dieci sfide identificate dal decennio del mare, suggerisce che a dover cambiare è proprio il rapporto stesso dell'umanità con l'oceano: le autrici - Michelle Bender e Rachel Bustamante dell'Earth Law Center di Durango in Colorado e Kelsey Leonard dell'università canadese di Waterloo in Ontario - hanno scritto un saggio che presenta principi ed esempi di governance ispirati a un ribaltamento di prospettiva: non bisogna più guardare all'oceano attraverso una visione utilitaristica, ma occorre diventare più consapevoli della profonda interconnessione e interdipendenza tra l'oceano (e più in generale la natura e l'ambiente) e l'umanità. 

Di oceani e di possibili strategie di governance abbiamo parlato con Roberto Danovaro, tra i massimi esperti a livello internazionale in questo ambito di studi. Biologo marino e professore ordinario di ecologia all'università Politecnica delle Marche, Danovaro ha da poco concluso un'importante esperienza alla guida della stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli, è presidente del comitato scientifico del Wwf ed è tra gli scienziati che hanno maggiormente contribuito ad accrescere la nostra conoscenza della biodiversità marina e dei fattori che la minacciano. 

Il professor Roberto Danovaro approfondisce lo stato di salute degli oceani e quali strategie di governance potrebbero essere più indicate. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

Come stanno gli oceani?

Quando si cerca di definire l'attuale stato di salute degli oceani è difficile dare una risposta univoca. "Se pensiamo alla condizione e anche alla preoccupazione vissuta tra gli anni ’70 e gli anni ’90 soprattutto per la contaminazione di tipo chimico e il lavaggio delle cisterne delle petroliere, possiamo dire che la situazione degli oceani e dei mari è migliorata. La contaminazione chimica, in particolare dovuta al petrolio e ai metalli pesanti, è stata affrontata con la dovuta attenzione e da questo punto di vista dobbiamo ricordare anche l’eliminazione della benzina con il piombo", spiega il professor Danovaro.

Dal punto di vista dell’inquinamento classico di tipo chimico la condizione degli oceani è dunque migliorata. Per altri aspetti invece è peggiorata e, come spiega Danovaro, gli elementi principali sono due: la distruzione degli habitat e i cambiamenti climatici.

"Da un lato abbiamo modificato, alterato, arato i fondali dei nostri oceani in modo sempre più intensivo, con l’attività di pesca in particolare. C’è quindi un problema di rimozione del pescato ma anche di distruzione di habitat in cui il pesce vive. Dall'altro lato ci sono gli effetti dei cambiamenti climatici che si stanno manifestando in tutto il mondo e anche alle grandi profondità abbiamo sempre più dati che confermano che la situazione da questo punto di vista sta peggiorando rapidamente".

"Stiamo vivendo proprio in questi giorni la COP 27 che deve fare il punto della situazione a Sharm el-Sheikh ed è un’area simbolica perché il mar Rosso è una delle aree più massacrate dalle combinazioni multiple di effetti legati ai cambiamenti climatici che stanno facendo sentire il loro forte impatto sugli ecosistemi", continua Roberto Danovaro.

Una risorsa che conosciamo ancora troppo poco

Cosa sappiamo davvero dell’esistenza che si consuma in un mondo verticale, a diversi chilometri di profondità? Molto poco. E certamente nei fondali marini si celano ancora tantissimi specie sconosciute alla scienza, alcune delle quali potrebbero estinguersi prima ancora di essere identificate. Un'esplorazione condotta nel Pacifico, in acque profonde 5.000 metri, ha recentemente rivelato la presenza di una trentina di potenziali nuove specie che precedentemente erano state studiate solo attraverso immagini fotografiche. Queste scoperte, ricorda il Guardian, hanno implicazioni potenzialmente importanti per l'estrazione mineraria in acque profonde perché questo tipo di attività implica un disturbo per molte forme di vita marine..

"Abbiamo ancora molto da scoprire degli oceani. Alcuni aspetti fondamentali riguardano anche i segreti della vita e dell’evoluzione. Altri sono invece di natura più applicativa e servono proprio alla nostra stessa sopravvivenza perché gli oceani producono il 50% dell’ossigeno del pianeta, assorbono oltre un terzo dell’anidride carbonica di origine antropica, hanno effetti di mitigazione dell’impatto dei cambiamenti climatici. Insomma, svolgono dei servizi che sono utili. Conoscerli meglio serve quindi anche a preservare questi beni e questi servizi che, per gli ambienti costieri, hanno anche un elevato valore economico. Capire quali saranno gli impatti dei cambiamenti climatici sugli oceani ci consentirà di sviluppare in modo sempre più raffinato un piano di adattamento e subirne meno le conseguenze", spiega Roberto Danovaro.

Un secondo aspetto da considerare è legato al modo in cui utilizziamo gli oceani. "Per quanto riguarda la Terra abbiamo utilizzato quasi tutta la superficie del pianeta, abbiamo alterato il 75% del mondo verde intorno a noi e le prospettive di espansione anche demografica ci porteranno sempre più a pensare al mare come risorsa, in termini di spazio, ambiente dove produrre energia, prendere acqua per irrigare i suoli ma anche come spazio abitabile in futuro.

La pianificazione dello spazio marittimo è una priorità: oggi è impensabile sulla Terra non sapere dove sono le città e dove sono i terreni agricoli. In mare invece non lo sappiamo perché i satelliti, seppure sempre più importanti nella nostra vita, non riescono a penetrare nella profondità degli oceani e quindi vediamo solo una distesa blu. Non abbiamo neanche idea delle batimetrie, cioè di come si muove il fondale al di sotto del profilo degli oceani. E soprattutto non sappiamo che vita c’è, che habitat ci sono. Da questo punto di vista la nostre conoscenze sono irrisorie e questo accade anche all’interno dell’Ue dove, pur trattandosi di una delle aree del mondo con la migliore combinazione di sensibilità ambientale e potenza scientifica, la conoscenza degli habitat presenti è insufficiente", ragiona il docente dell'università Politecnica delle Marche.

Il decennio del mare

I mari, ricorda il World Food Programma, sono al centro dei sistemi globali che rendono la terra abitabile. Non proteggerli significa sottoporre centinaia di milioni di persone al rischio di inondazioni, soprattutto nel paesi poveri e perdere risorse alimentari di enorme importanza, da cui dipende il sostentamento di molte aree del mondo. 

Il decennio del mare ha obiettivi ambiziosi e, in parallelo, proseguirà anche un altro importante progetto (Seabed 2030) avviato nel 2017 con l'obiettivo di arrivare ad una mappatura completa e ad alta risoluzione degli oceani. Nel 2021 risultava mappato poco più di un quinto degli oceani mentre i dati aggiornati al 2022 riportano il raggiungimento di quota 23,4%. 

"Abbiamo molte aspettative dal decennio degli oceani e ci sono tre grandi settori all’interno dei quali dobbiamo lavorare. Il primo è l’obiettivo dello zero pollution, dobbiamo cioè lavorare per diminuire gli inquinanti. Se la situazione relativa agli inquinanti classici è, come ho detto prima, migliorata, ci sono adesso nuovi composti che danneggiano gli oceani. Noi produciamo migliaia di nuove molecole ogni anno e vengono usate per diverse attività, dai prodotti per la cura personale a quelli industriali. Queste molecole una volta disciolte in acqua non vengono completamente abbattute e depurate e arrivano al mare. Questo è un aspetto che dobbiamo ricordare meglio. C’è poi il problema delle plastiche che continuerà ad essere presente perché, anche qualora attivassimo delle politiche serie per contrastare il rilascio di ulteriori plastiche in mare, i rifiuti che già adesso sono in acqua porteranno il totale delle microplastiche presenti negli oceani ad aumentare fino a 4 volte entro il 2050", osserva Danovaro spiegando che il motivo sono i processi (e i tempi) del ciclo di degradazione di rifiuti più grandi.

"Il secondo punto è quello relativo alla mitigazione dei cambiamenti climatici e all’adattamento. Il terzo riguarda invece gli obiettivi della protezione: le Nazioni unite hanno chiesto di proteggere almeno il 30% degli ambienti terrestri e il 30% dei mari entro il 2030. E’ un obiettivo molto ambizioso se consideriamo che adesso siamo ancora sotto al 10%. In Italia proteggiamo all’interno di aree marine protette circa il 5,5% dei mari italiani. Arriviamo a poco più del 10% se includiamo le zone di grande valore naturalistico che abbiamo mappato ma che non proteggiamo".

"Un’altra importante direzione in cui lavorare è quella di riparare il mare. Occorre iniziare un’attività di restauro. Le Nazioni unite infatti hanno fatto due chiamate: un decennio per gli oceani e lo sviluppo sostenibile e uno per il restauro degli ecosistemi, ambito in cui rientrano anche gli ecosistemi marini. Un obiettivo ambizioso sarebbe restaurare almeno il 20-25% degli ecosistemi marini degradati. Ma qui torniamo al problema a cui abbiamo fatto riferimento prima e cioè la quantificazione e la mappatura degli habitat: noi non abbiamo neanche un’idea chiara di quanto sia il livello di danno degli habitat marini. Vediamo che è in crescita un po’ ovunque perché vediamo che le foreste sottomarine si stanno erodendo, stanno scomparendo le barriere coralline, stiamo perdendo le foreste di macroalghe ma non abbiamo ancora mappato e quantificato queste perdite", puntualizza il professor Danovaro.

Quale governance per proteggere gli oceani?

Ma come va impostata una governance degli oceani che sia in grado di portare a compimento entro il 2030 quegli obiettivi identificati come prioritari dal decennio del mare delle Nazioni unite? Secondo lo studio Living in relationship with the Ocean to transform governance in the UN Ocean Decade”, pubblicato su Plos One, deve essere completamente trasformato il rapporto dell’umanità con l’oceano. Le autrici del saggio propongono un cambio di paradigma, incentrato su cinque principi guida, incentrato su una visione dell'oceano come entità vivente con una propria serie di diritti. La riflessione delle scienziate mette in discussione l'approccio con cui finora gli esseri umani hanno guardato al mare, una sorta di regno pieno di risorse estraibili, e invita a un maggiore ascolto dei popoli indigeni e del loro rapporto con la natura. 

"Abbiamo bisogno di impegnarci su obiettivi globali ma declinandoli a livello nazionale e locale anche per la specificità che contraddistingue ogni regione marina. Un secondo punto è però la necessità di un livello di cooperazione internazionale più ampio: quasi il 50% del pianeta è al di fuori dei confini giuridici nazionali. Abbiamo vaste aree di mare che non ricadono all’interno dei Paesi che vi si affacciano. In poche marole è il mare di nessuno. A questo punto un enorme porzione di vita appartiene a tutti. Abbiamo bisogno di sviluppare dei piani transnazionali un po’ sul modello della ricerca aerospaziale che permettano a tutti i Paesi di condividere le tecnologie ma anche le responsabilità per gestire in modo appropriato una porzione così importante del pianeta.

Coinvolgere le popolazioni locali è indispensabile perché i grandi Paesi hanno delle tecnologie straordinariamente potenti per rovinare il mare o prelevare voracemente le risorse sia biotiche come il pesce sia abiotiche come idrocarburi, metalli pesanti o altre materie prime", commenta al riguardo Roberto Danovaro.

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