Qualche mese fa abbiamo pubblicato un articolo sulla capacità dei cani di creare rappresentazioni mentali degli oggetti quando ascoltano le parole corrispondenti, una capacità che un tempo si riteneva esclusiva prerogativa degli esseri umani e che invece a quanto pare è comune ad altri animali. Forse gli amanti dei gatti hanno fatto qualche petizione, perché ora è uscito uno studio pubblicato su Scientific Reports in cui si spiega che anche i loro beniamini sono in grado di associare parole a immagini (non sia mai che qualcuno avesse degli elementi per sostenere che i cani sono meglio dei gatti: la battaglia tra Umani di Riferimento può tranquillamente continuare).
In realtà questo non è un risultato così inaspettato, visto che ogni proprietario (il gatto criticherebbe questa definizione) sa perfettamente che il suo coinquilino riesce a distinguere la parola “crocchette”, o qualsiasi termine con cui si è soliti indicare una razione di cibo. A volte magari può venire il dubbio che un gatto non comprenda la parola “no”, o “giù da lì!”, ma sotto sotto è solo perché non si vuole ammettere che sono perfettamente in grado di capirci, ma ai loro occhi non abbiamo abbastanza autorità per farli smettere di soggiornare sul tavolo della cucina durante la cena.
Per quanto questa capacità fosse ragionevolmente prevedibile, la vera novità è che qualcuno abbia trovato un modo per testarla.
Dimostrare che i gatti possono formare associazioni come quelle immagine-parola, infatti, è più complicato rispetto ai cani per un semplice motivo: i gatti sono meno motivati a collaborare. I cani sono stati addestrati per secoli a lavorare con gli esseri umani, quindi hanno sviluppato un forte interesse per quello che facciamo e per i nostri segnali, sia visivi che vocali, quindi bastava chiedere loro di riportare un oggetto nominato selezionandolo tra altri. I gatti, invece, si sono avvicinati agli umani in tempi più recenti e senza sviluppare una dipendenza sociale così marcata. Questo non significa che siano meno intelligenti, ma che spesso non hanno lo stesso desiderio di compiacere gli umani e di seguire le istruzioni, quindi le ricerche diventano più complicate.
Le cose però cambiano se chiedi a un gatto di guardare uno schermo: ci immaginiamo che questi animali amino indulgere in attività di intrattenimento, visto come ci saltano in braccio quando siamo impegnati in una sessione di bingewatching su Netflix. Gli mancherebbe solo il pollice opponibile per cambiare canale, quando i loro umani hanno dei gusti discutibili in fatto di cinema e magari si sciroppano quella lagna, dal loro punto di vista, di Io e Marley.
A parte gli scherzi, non è stato nemmeno necessario offrire loro una ricompensa: “I ricercatori – spiega Paolo Mongillo, docente Dipartimento di Biomedicina comparata e alimentazione ed esperto in etologia degli animali domestici – non hanno analizzato dei comportamenti produttivi, cioè che richiedessero in qualche modo una spesa energetica: i gatti in questo caso non facevano assolutamente niente se non osservare uno schermo. In un rapporto costi-benefici guardare da una parte o dall’altra al gatto non costa niente”.
Le cose però cambiano se chiedi a un gatto di guardare uno schermo: ci immaginiamo che questi animali amino indulgere in attività di intrattenimento, visto come ci saltano in braccio quando siamo impegnati in una sessione di bingewatching su Netflix. Gli mancherebbe solo il pollice opponibile per cambiare canale, quando i loro umani hanno dei gusti discutibili in fatto di cinema e magari si sciroppano quella lagna, dal loro punto di vista, di Io e Marley.
A parte gli scherzi, non è stato nemmeno necessario offrire loro una ricompensa: “I ricercatori – spiega Paolo Mongillo, docente Dipartimento di Biomedicina comparata e alimentazione ed esperto in etologia degli animali domestici – non hanno analizzato dei comportamenti produttivi, cioè che richiedessero in qualche modo una spesa energetica: i gatti in questo caso non facevano assolutamente niente se non osservare uno schermo. In un rapporto costi-benefici guardare da una parte o dall’altra al gatto non costa niente”.
I ricercatori hanno fatto due esperimenti, il primo è stato condotto su 31 gatti (20 maschi e 11 femmine), e il secondo su 34 (20 maschi e 14 femmine). La maggior parte dei gatti proveniva dai cat cafè, luoghi in cui esemplari particolarmente socievoli interagiscono con i visitatori, mentre gli altri erano gatti domestici (in particolare, nel primo esperimento 23 gatti provenivano dai cat cafè e nel secondo 24). Non ci sono state particolari differenze di comportamento nei due campioni, e 9 gatti hanno partecipato a entrambi gli esperimenti. Tre invece non li hanno completati (uno non ha guardato lo schermo nella prima fase, due hanno manifestato disagio).
Nel primo esperimento, i ricercatori mostravano ai gatti due immagini (un sole o un unicorno) e, mentre le guardavano, facevano sentire loro una parola umana inventata: "parumo" e "keraru", che gli animali non potevano aver ascoltato casualmente nel corso della loro vita, e controllavano tramite telecamera per quanto tempo i gatti fissavano lo schermo. Dopo alcune ripetizioni, hanno invertito le parole e i gatti di fronte all’abbinamento inaspettato hanno dimostrato perplessità, tanto che il tempo di visione è aumentato il che voleva dire che si erano accorti del cambiamento e quindi avevano associato immagine e parola: l'esposizione breve (appena nove secondi per associazione) è stata sufficiente a far sì che i gatti riconoscessero i cambiamenti, dimostrando un apprendimento veloce. Nel secondo esperimento invece delle parole pronunciate dagli umani i ricercatori hanno usato suoni elettronici: in questo caso i gatti non sembravano notare più di tanto il cambiamento, e questo suggerisce che siano più propensi a formare associazioni quando il suono è legato alla voce umana, probabilmente perché vivono con noi e sono abituati a questo tipo di suono. Questo comportamento potrebbe riflettere un adattamento evolutivo legato alla convivenza con gli esseri umani, ma non è chiaro se sia dovuto alla selezione genetica o a un apprendimento indotto dall'ambiente domestico.
“I gatti di questo studio – spiega Mongillo – sono gatti che da una parte subiscono l’effetto della domesticazione, ma dall’altro sono cresciuti in un ambiente antropico: sono quindi abituati alla voce umana sia per evoluzione sia per esperienza, per loro la voce umana è diventata rilevante perché è quella che presagisce l'arrivo di cibo o di interazioni sociali, quindi è associata a momenti significativi della vita del gatto. Probabilmente è il motivo per cui i suoni artificiali non hanno avuto lo stesso effetto”.
Agli umani più sentimentali, a questo punto sarà venuto un dubbio: il loro gatto reagirebbe allo stesso modo se un estraneo pronunciasse le stesse parole? “Non sappiamo esattamente – spiega Mongillo – quali siano le caratteristiche di una voce che la rendono importante o rilevante. Non ci sono motivi per pensare che l’esperimento non avrebbe funzionato con le voci di estranei, ma chiaramente la voce di una persona familiare può avere anche una rilevanza affettiva ed emotiva, o il gatto può avere imparato che quella è la voce che prelude a eventi significativi, quindi potrebbe essere che presti un’attenzione maggiore quando la sente, e l’attenzione è un requisito fondamentale per fare le associazioni dell’esperimento”.
Viene quindi da pensare che ripetere lo stesso esperimento con gatti completamente selvatici non avrebbe funzionato. “Probabilmente – conferma Mongillo – in quel caso i risultati sarebbero stati diversi, per vari motivi: intanto è difficile coinvolgere in un esperimento in ambiente controllato un animale selvatico, ci sarebbero già delle difficoltà a inserirlo in un contesto in cui viene esposto alla presenza di esseri umani. Inoltre per un gatto di questo tipo la voce umana potrebbe rappresentare anche uno stimolo pauroso, e lo indurrebbe a risposte motivate da un'emozione sottostante che non ha niente a che vedere con quello che può capire o non capire dell'associazione tra parole e oggetti. Anche se, paradossalmente, si prendesse un gatto selvatico e lo si mettesse in una stanza finché non si tranquillizza, per poi cominciare a fargli vedere queste immagini in un maxischermo associando delle parole, i risultati sarebbero falsati per la paura che probabilmente proverebbe. Forse questo esperimento si potrebbe fare associando le immagini a dei suoni neutri a cui un animale selvatico è più abituato, come un sasso che cade o un pezzo di legno che si rompe”.
Come facilmente intuibile, quindi, non è che i gatti selvatici siano meno intelligenti di quelli domestici, ma essendo meno abituati alla convivenza con gli esseri umani non erano adatti a questo test.
Fino a questo momento abbiamo parlato di parole, ma per essere più precisi avremmo dovuto dire “il suono che corrispondeva alla parola priva di senso che veniva testata”. L’esperimento, infatti, ci dice ben poco sulla capacità dei gatti di comprendere il significato delle parole: sembrerà incredibile agli umani che alla parola “crocchette” vedono il felino mezzo addormentato precipitarsi dall’altra parte della casa, ma se parliamo di significati il discorso non è così semplice.
I gatti sono animali molto rapidi nell’apprendimento associativo, ma questo potrebbe non avere a che fare con il linguaggio: è vero, molti di loro alla parola “crocchette” capiscono che li aspetta uno spuntino, ma i gatti che invece amano l’umido arrivano alla stessa conclusione anche quando sentono aprire la portella del frigo (con deludentissimi falsi positivi che rinfacciano al padrone che voleva solo farsi un panino con chiari miagolii di disappunto). Un frigo che si apre di sicuro non sta parlando, anche se durante le diete potremmo pensare il contrario, quindi anche con la parola “crocchette” il gatto potrebbe registrare solo un suono, senza che si possa parlare propriamente di comprensione del linguaggio.
“La capacità – spiega Mongillo – di associare tra di loro eventi che in maniera probabilistica accadono frequentemente insieme è un meccanismo base dell'apprendimento di cui siamo dotati noi così come tutti gli animali che hanno un sistema nervoso minimamente sofisticato (anche le api, per esempio). Non è necessariamente un discorso di linguaggio, questo esperimento sulle abilità di comprensione del linguaggio non ci dice niente. La vera novità è di aver condotto questi test sui gatti, e la speranza è che studi futuri ci dicano qualcosa di nuovo e magari specifico su questi animali che fino ad oggi non abbiamo studiato molto perché lavorare con loro non è particolarmente facile. Speriamo che sia l'inizio di ricerche che portino a una maggiore comprensione di questa specie, che per molti versi rimane ancora molto elusiva”.