SCIENZA E RICERCA

I cani capiscono alcune parole e creano immagini mentali quando le sentono

Per molti di noi i nostri amici a quattro zampe sono molto più di semplici animali domestici: sono compagni fedeli che sembrano capirci solo con uno sguardo o una parola. Ma fino a che punto i cani possono realmente comprendere quello che diciamo? Un recente report pubblicato su Current Biology da un team internazionale di ricercatori ha cercato di rispondere a questa domanda, gettando nuova luce sulle capacità cognitive dei cani. I ricercatori hanno usato l'elettroencefalografia (EEG), e hanno scoperto che i cani creano rappresentazioni mentali degli oggetti quando ascoltano le parole corrispondenti.

Intendiamoci: qualsiasi proprietario di cani, o anche semplice appassionato, si era già accorto che quando pronunciava determinate parole il cane riusciva a individuare l’oggetto correlato, ma questo studio ha anche delle implicazioni significative a livello neurologico ed etologico, perché fino a questo momento si era pensato che la comprensione referenziale delle parole oggetto (così si definisce in gergo tecnico questa capacità) fosse prerogativa esclusiva degli esseri umani. A quanto pare, invece, anche i cani ce l’hanno, e tra l’altro è una capacità generale della specie, e non si limita quindi a individui addestrati in una maniera particolare.

Per comprendere meglio l’esperimento, e per capire quali potrebbero essere le implicazioni di questa scoperta, abbiamo intervistato Paolo Mongillo, docente di etologia al Dipartimento di Biomedicina comparata e alimentazione.

Servizio e montaggio di Anna Cortelazzo

Per questo studio sono stati selezionati dei cani che, secondo i loro proprietari, avevano già una certa familiarità preliminare con le parole oggetto (dovevano riconoscere almeno tre parole associate a oggetti specifici). Questo criterio ha garantito che gli esperimenti fossero rilevanti e adatti alle capacità dei cani coinvolti.
Gli oggetti utilizzati nei test sono stati selezionati dai proprietari dei cani per assicurare che fossero familiari per i loro animali. In questo modo si è creato un contesto più naturale e confortevole per i cani durante i test, facilitando così una risposta più genuina e spontanea.

I 18 proprietari coinvolti mostravano un oggetto ai loro cani e pronunciavano un nome. A volte il nome corrispondeva all’oggetto, altre volte no. L'elettroencefalografia (EEG) che registrava l’attività cerebrale ha rivelato una reazione diversa a seconda che l’oggetto corrispondesse o non corrispondesse al nome ascoltato dal cane. “Esaminando l'elettroencefalogramma – spiega Mongillo – i ricercatori hanno riscontrato un’attività cerebrale diversa quando c'era incongruenza tra l'oggetto mostrato e la parola che era stata pronunciata in precedenza: questo tipo di risposta ha delle caratteristiche che sono per certi versi corrispondenti a quelle già osservate in passato nell'uomo e che si ritengono indicative del fatto che le parole siano in grado di evocare delle rappresentazioni mentali degli oggetti. In altre parole, quando un cane impara il nome di un oggetto quella parola è poi in grado di far emergere nella mente del cane un’immagine vera e propria di quell'oggetto”.

Questo significa che i cani non si limitavano a collegare un’azione a un insieme di suoni (per esempio rincorrere la palla quando il proprietario la nominava), ma comprendevano il significato della parola, esattamente come fanno gli esseri umani, e anzi attivavano il ricordo dell’oggetto quando lo sentivano nominare.
“Quello che io trovo intrigante – aggiunge Mongillo – è il fatto che ci si focalizzi sull’elaborazione da parte di una specie animale di qualcosa che si riteneva normalmente essere una prerogativa della specie umana, ovvero l'elaborazione di simboli verbali del linguaggio. Per questo penso che sia uno studio particolarmente affascinante, perché ci consente di entrare e di approfondire anche quella che è la linea di demarcazione tra l'uomo e gli animali e magari anche di andare un po' a cancellarla”.

Rispetto agli studi precedenti, è stata sovvertita anche l’idea che la capacità di imparare i nomi degli oggetti appartenesse solo ad alcuni cani. “Questo studio invece – chiarisce Mongillo – ci dice che i meccanismi mentali attraverso cui si forma questa associazione tra parole e oggetti di fatto non sono prerogative di pochi cani ma sembrano essere una caratteristica comune a tutta la specie”.

L’uso dell’EEG per questo tipo di studi è un’idea semplice ma allo stesso tempo innovativa: fino a questo momento, infatti, il lavoro veniva svolto chiedendo al cane di recuperare l’oggetto nominato scegliendolo tra altri, e lui ci riusciva raramente (ecco perché si pensava che non ne comprendesse il significato). L'elettroencefalografia, infatti, pur non essendo un esame invasivo, veniva poco usata in ambito veterinario, perché non dava molte informazioni (i segnali sono molto deboli e c’è una forte presenza di rumore di fondo). Con il miglioramento tecnologico, però, ci sono stati dei progressi importanti, e in questo caso è stato un esame utile per restituire un’evidenza neurologica a un processo che, come dicevamo, era già conosciuto da etologi, addestratori ma anche da semplici proprietari di cani. “Sicuramente – conferma Mongillo – lo studio non ci dice niente di sorprendente per quanto riguarda la capacità dei cani di associare parole a oggetti: questa capacità è nota a chiunque abbia avuto a che fare con un cane e sicuramente non emerge negli ultimi anni. I meriti dello studio sono quelli di entrare nel dettaglio di come questa associazione avvenga a livello cerebrale, e di dare una prima dimostrazione dell'esistenza di meccanismi cerebrali simili a quelli che sono già stati descritti e dimostrati nell'uomo”.

Questo studio apre nuove possibilità di ricerca legate all’evoluzione del linguaggio negli animali, non solo nei cani, e ai punti in comune che potrebbe avere con quella degli umani: potrebbe emergere che i cani siano più “bravi” di altri animali con le parole, vista la lunga storia di domesticazione che ci lega a loro, ma saranno necessari altri esperimenti. Di certo, però, dallo studio è emerso che siamo meno distanti dagli animali rispetto a quanto pensavamo, e non è la prima volta che succede.

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