Sono passati 70 anni dal Congresso d’Europa de L’Aja del maggio 1948 quando oltre mille delegati in rappresentanza di tutti i movimenti europei concordarono per la convocazione di un’Assemblea europea eletta dai parlamenti nazionali, la stesura di una Carta europea dei diritti umani e la creazione di una Corte di giustizia.
Il Congresso de L’Aja ebbe sui governi e sull’opinione pubblica europea un impatto decisivo già nel breve termine. Nel 1949 veniva creato il Consiglio d’Europa con una Assemblea parlamentare e un Comitato dei ministri.
Nel 1950 il Consiglio d’Europa approvava la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, che portò poi alla istituzione della Corte europea dei diritti umani, cioè al primo sistema sopranazionale (regionale) di tutela “giurisdizionale” dei diritti umani.
Erano i primi frutti della Dichiarazione universale dei Diritti umani, madre feconda del nuovo diritto internazionale dei diritti umani.
Nel 1951 a Parigi veniva firmato il Trattato istitutivo della Ceca.
A distanza di 70 anni da quell’evento, il sistema dell’Ue è divenuto il più complesso e sofisticato campo sperimentale di governance sopranazionale oggi esistente.
La letteratura scientifica che lo riguarda è divenuta speculare quanto a estensione e raffinatezza analitica, interessando i campi del diritto, dell’economia, della storia, della politologia, della filosofia, della pedagogia.
L’Ue è divenuta un cantiere aperto di multi-level governance, un laboratorio di ricerca applicata riguardante la sostenibilità della statualità, ovvero un contenitore razionale in cui gli stati, in presenza della estesa desovranizzazione provocata dai multiformi processi di globalizzazione, potrebbero continuare a coesistere in quanto soggetti di governance.
L’Ue è divenuta anche spazio congruo rispetto alle nuove esigenze funzionali della democrazia, la cui pratica rischia il collasso nell’asfittico spazio – territoriale, giuridico, politico – dello stato nazionale. In altre parole, la dimensione del sistema dell’Ue si presenta in corretto rapporto di scala con l’ordine di grandezza delle esigenze, innanzitutto spaziali, della democrazia affinché questa sopravviva e si sviluppi.
In questa prospettiva è la stessa Ue che lancia ciambelle di salvataggio alla governabilità degli stati e alla pratica della democrazia nell’era dell’interdipendenza planetaria.
Ma tutto ciò non è compreso dall’attuale leadership politica europea e mondiale.
In un momento storico nel quale ci sarebbe bisogno di istituzioni che siano in corretto rapporto di scala con l’ordine di grandezza dei processi di mutamento in atto, ci sono governanti che compiono scelte che mirano prima a delegittimare l’organizzazione internazionale multilaterale e poi all’abbandono unilaterale.
Insieme con la de-regulation economica avanza rapidamente anche la de-regulation istituzionale.
È in atto un attacco gravissimo contro il multilateralismo, rappresentato nella sua espressione più alta dalle Nazioni Unite, e a ciò che esso significa in termini di costruzione della pace.
Un attacco portato al cuore di quell’ordine internazionale creato all’indomani della seconda guerra mondiale e fondato sui principi e sui valori enunciati nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Insieme con il Consiglio d’Europa, l’Ue è figlia di quell’ordine mondiale.
Quella che l’Ue sta attraversando è una crisi di sistema.
La crisi migratoria è soltanto la goccia che sta facendo traboccare il vaso. Dopo la spinta verso l’Unione politica avvenuta con il Trattato di Maastricht (1992) all’indomani della caduta del muro di Berlino, le classi governanti degli stati membri non hanno saputo o non hanno avuto il coraggio di portare a termine quel processo storico prima dell’allargamento ai paesi dell’Europa centrale e orientale.
È una crisi interna, politico-istituzionale, che sta mettendo a dura prova le relazioni tra gli stati membri e tra questi e le istituzioni sopranazionali europee. La storica dialettica tra intergovernativismo e sopranazionalismo ha ormai assunto i caratteri propri di un conflitto politico che va ben oltre la definizione dell’esito finale del processo di integrazione, riguarda la stessa idea di Europa cara ai Padri fondatori.
È entrato in crisi il rapporto tra cittadini europei e istituzioni europee come dimostra, tra l’altro, la sempre più bassa partecipazione alle tornate elettorali per le elezioni del Parlamento europeo. Nel 1979 alla prima elezione a suffragio universale e diretto il tasso di partecipazione elettorale è stato del 63% (gli stati membri erano 9), alle elezioni del 2014 la partecipazione al voto è stata del 42,6% (gli stati membri erano 28). L’opacità delle istituzioni intergovernative e la burocratizzazione di quelle sopranazionali contribuiscono ad aumentare la distanza che le separa dal cittadino europeo.
Alla crisi della democrazia rappresentativa si affianca anche una crisi della democrazia partecipativa. L’iniziativa dei cittadini europei prevista dall’art. 11 del Trattato di Lisbona non ha avuto gli esiti sperati e lo stesso dialogo civile tra le istituzioni europee e le organizzazioni della società civile, pure previsto dall’art. 11, non ha fatto significativi passi in avanti rispetto alla tradizionale prassi della consultazione.
Più in generale, in Europa è in atto una politica di restringimento degli spazi della società civile organizzata che opera per i diritti umani, lo sviluppo umano e l’inclusione.
I partiti politici europei che, ai sensi dell’art. 10, “contribuiscono a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini europei”, non decollano. Sono entità a sovranità limitata, ove i limiti discendono dalla posizione dominante saldamente detenuta al loro interno dai partiti nazionali.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, che con il Trattato di Lisbona ha finalmente assunto lo stesso valore giuridico dei trattati, è diventata un optional come la moneta unica.
Con la crisi migratoria anche il principio dello “stato di diritto europeo” vacilla. Il diritto d’asilo e l’accoglienza a coloro che fuggono da guerre, persecuzioni politiche, povertà, conflitti ambientali e climatici è lasciato alla volontarietà degli stati membri.
L’economia sociale di mercato, uno dei pilastri dell’Uem, finalizzata a ridurre le diseguaglianze e a dar vita ad un welfare europeo nel quadro di una rinnovata e rafforzata politica di coesione economica, sociale e territoriale, è rimasta schiacciata tra le spinte neo-liberiste e le politiche conseguenti al fiscal compact.
È una crisi esterna, che riguarda il ruolo internazionale dell’Ue e il funzionamento di quell’embrione di diplomazia europea rappresentata dall’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e dal Servizio europeo per l’Azione esterna.
L’obiettivo di una Ue come attore globale di “soft power” per la pace e la sicurezza internazionali, i diritti umani, lo sviluppo umano, l’aiuto umanitario, la tutela dell’ambiente… Va via via scomparendo di fronte al prevalere degli egoistici interessi nazionali degli stati membri.
L’Ue non riesce a parlare a una sola voce nei principali consessi internazionali, dal Consiglio di sicurezza al Consiglio diritti umani delle Nazioni Unite, dal Fondo monetario internazionale all’Organizzazione mondiale del commercio, dal G7 al G20.
L’Ue sta perdendo la sua credibilità quale attore globale di “norms promoter” nel campo dei diritti umani. Non si può pretendere da un paese terzo il rispetto dei diritti umani se l’autorità che lo chiede viola essa stessa i diritti umani.
Insomma, va sempre più restringendosi lo spazio dell’Ue nella struttura dell’attuale sistema della politica internazionale.
Quella dell’Ue è una crisi di “leadership di qualità”.
Gran parte delle classi politiche nazionali si dimostrano, culturalmente e politicamente, impreparate a governare un processo di integrazione sopranazionale che richiede oltre a una specifica professionalità politica, anche e soprattutto come scriveva Papisca “una conversione antropologica della tradizionale leadership statual-nazionale”.
Si è smarrita quella comune identità europea quale componente della più ampia dimensione della cittadinanza europea, che aveva fino a ieri tenuto insieme il progetto europeo e che avrebbe dovuto essere coltivata primariamente attraverso l’attuazione di una politica comune dell’educazione e della formazione. Una sorta di educazione civica europea volta a sviluppare una nuova cultura politica capace di creare quel senso di appartenenza che è necessario per dar vita al progetto costituzionale e federativo che i Padri fondatori avevano pensato per l’Europa.
A quando un’Europa ritrovata agli ideali e alle regole della democrazia?
Ora siamo in mezzo al guado: si tratta di decidere se andare fino in fondo e costruire la federazione europea o tornare indietro al periodo buio dei nazionalismi.
La bussolaèquella dei diritti umani internazionalmente riconosciuti, dell’idea di Europa nata dal Manifesto di Ventotene, dalla resistenza al nazi-fascismo e dal Congresso de L’Aja del 1948. Quei principi e quei valori sono oggi sanciti nell’art. 2 del Trattato di Lisbona: “L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.