CULTURA

Ian McEwan inscena l'uomo-macchina

Non è uno spoiler citare una delle sue ultime pagine perché, paradossalmente, l’ultimo romanzo di Ian McEwan – il celebre scrittore inglese di Espiazione, Cortesie per gli ospiti, Bambini nel tempo, Nel guscio e moltissimi altri ormai – non vive di trama, come i precedenti, ma di considerazioni piuttosto complesse. Ecco che quindi è possibile leggere le parole di Adam, un robot in tutto e per tutto umano, senza guastarsi la lettura: “Spero che ascolterete…un’ultima composizione in diciassette sillabe. […] Parla di macchine come me e persone come voi e del nostro futuro insieme… della tristezza a venire. Succederà. Col tempo, coi miglioramenti… vi supereremo… vi sopravvivremo… pur volendovi bene. Dovete credermi, non c’è alcun senso di trionfo nei miei versi… Solo rimpianto”.

Adam è sulla trentina: belloccio, occhi chiari screziati, fisico prestante, vent’anni almeno di vita davanti. Ama gli haiku giapponesi, crede nella giustizia e ha due soli amici: una coppia, Charlie e Miranda, che lo ha ordinato alla ditta produttrice di robot umanoidi, un numero limitato di Adamo ed Eva che si misurano nel mondo per la prima volta, nel 1982. E si intitola infatti Macchine come me (segue il sottotitolo: “e persone come voi”, Einaudi 2019), l’ultima fatica del romanziere britannico che fa un esplicito omaggio all’Asimov di Io, robot, affrontando, lui che in ogni libro apre un nuovo capitolo d’indagine letteraria e sulla natura umana, il già ben discusso tema della robotica, dell’interazione uomo-macchina e della morale, umana e non. Qui però, è il caso di dirlo, veleggia al largo incurante di ingraziarsi il lettore: Machines like me, per l’abbondanza di riflessioni e di descrizioni storico-sociali, ha quasi di più in comune con le opere di Javier Marías che con i suoi propri romanzi, di cui però si sente l’eco.

Parla di macchine come me e persone come voi e del nostro futuro insieme… della tristezza a venire. Succederà

Risuona alla mente il triangolo amoroso di Nel guscio, ma se lì la bizzarria era costituita dalla voce narrante – il “quarto” del triangolo, ossia il feto nel grembo della madre che sta tramando con lo zio-amante l’uccisione di suo padre – , qui “l’alieno” lo è a tutti gli effetti: Adam ha un cervello che ragiona in codice binario, per ricaricarsi non dorme ma si attacca alla corrente, è capace di leggere l’opera omnia di Shakespeare in un tempo ridicolmente breve. Può tenergli testa Charlie, un semplice essere umano, nel corteggiare la giovane e bella Miranda?

Torna il tema del libero arbitrio caro all’autore de La ballata di Adam Henry che si declina nella (già da tempo attesa) ribellione delle macchine: Adam infatti trova il modo di disabilitare il pulsante che permette agli umani di “spegnerlo” e altri suoi “confratelli” giungono persino a suicidarsi, corrompendosi dall’interno. Nemmeno i robot – pare suggerire l’autore – possono sopravvivere al nostro mondo (che poi è quello dell’Inghilterra del 1982, che ha però perso la guerra delle Falkland, ma somiglia incredibilmente ai nostri giorni precari e tristi), o forse non ci riescono a maggior ragione perché sono stati dotati di un codice morale univoco? Per le macchine non esistono white lies, bugie a fin di bene; chi ha sbagliato deve pagare; la verità va detta sempre e comunque. Ma Adam sì, lui riesce eccome a sopravvivere, e anche felicemente, perché Adam si è innamorato. Di Miranda. E l’amore si manifesta in lui come in tutti noi: Adam non pensa ad altro che a lei, legge e scrive poesie d’amore (gli haiku, appunto), per lei farebbe di tutto. Ma questo non lo esenta dallo scegliere ciò che è giusto: e poco importa che le possa rovinare la vita, poco importa che lei abbia agito per aggirare la giustizia terrena in nome di una giustizia superiore. Adam non può infrangere il proprio codice morale. “Questo è il dilemma al centro del romanzo”, ha spiegato l’autore al Festivaletteratura di Mantova qualche giorno fa, dove ha presentato Macchine come me per la prima (e unica) volta in Italia. “È una creatura assolutamente razionale, ma anche gli psicopatici agiscono solo in base alla ragione, alla loro strettamente, e non producono necessariamente il bene”. Poi ha aggiunto: “Mi interessava capire come si sarebbero posti i lettori nei confronti di questo dilemma: personalmente sono al 51% con Adam”.

Ma perché tutto accade nel 1982? Non è forse fantascienza, questa? McEwan sceglie di far nascere i robot non nel futuro, ma nel nostro passato. A traghettarlo in quel preciso periodo storico è Alan Turing, il padre dell’intelligenza artificiale così come è stata pensata nel Novecento, che fa una comparsata come personaggio della vicenda. L’autore però gli regala quasi trent’anni di vita, dal momento che, nella realtà storica, Turing è morto nel 1954: “È troppo facile immaginare il futuro – dice –  trovo più interessante predire il passato. Se non ci fosse stato il Cristianesimo a imbrigliare la società europea, chissà, forse avremmo avuto la Rivoluzione Industriale nell’ottavo secolo in una qualche zona della Germania ricca di carbone”. Lo scrittore, lodevolmente, non si esime neppure dall’entrare nel merito della questione matematica, per come è possibile farlo in un romanzo, chiamando in causa le classi di complessità dei problemi computazionali e raccontando le evoluzioni delle macchine capaci di giocare a scacchi contro i campioni umani, e di vincerli.

Ma non è qui, si capisce leggendo, che si gioca la sfida dell’intelligenza artificiale, perché gli scacchi sono un sistema chiuso, con regole precise, un inizio e una fine definiti e riconoscibili, mentre la vita, quella vera, non è riducibile a un sistema di assiomi e di metodi di induzione a partire da questi. E come accade al padre di Miranda nel romanzo, di scambiare il robot per l’uomo e viceversa, può succedere lo stesso anche al lettore: nel suo “discorso” McEwan infatti affronta la sfida definitiva, cioè di stabilire cosa sia umano e cosa non lo sia.  Qual è l’unicum, la punta del diamante, l’eccezionalità che ci rende irriproducibili, singolari, anche se mortali? Nessun download del nostro sapere, delle nostre esperienze, della nostra unicità è (per ora) ancora possibile. Forse la risposta sta nel verbo scegliere, e viene citato Schopenhauer: “Possiamo scegliere tutto ciò che desideriamo, ma non siamo liberi di scegliere cosa desiderare”. A pronunciare queste parole è Adam, il robot. Forse allora la risposta è invece nel verbo desiderare.

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