Giotto, Adorazione dei Magi, Cappella degli Scrovegni. Foto: Archivio fotografico del Comune di Padova
“E tu Betlemme […] non sei davvero l'ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”. Questo passo del vangelo di Matteo (2,6), che riprende a sua volta il profeta Michea, introduce già all’essenza del Natale, la festa oggi più festeggiata al mondo, anche dai non cristiani. Un momento dell’anno incardinato dalla modernità all’interno di una solida, ancorché recente, ritualità consumistica fatta di regali e di viaggi, ma che tuttavia mantiene qualcosa dell’originale paradossalità. Tutto infatti ruota attorno alla nascita miracolosa di un bambino nella povertà e precarietà più assolute, per di più in un luogo assolutamente periferico (“l’ultima delle città di Giuda”).
I magi e la stella, viaggio a Betlemme, l’ultimo libro dello storico Antonio Musarra pubblicato da Il Mulino, porta il lettore alle radici del Natale partendo dalla descrizione, meditata e filologica, di uno dei posti più densi di storia – e di sofferenza – al mondo. Una complessità simboleggiata proprio da Betlemme (dall’ebraico Beit Leḥem, traducibile con “casa del pane”), luogo di nascita del re Davide ma anche sepoltura della matriarca Rachele, moglie prediletta di Giacobbe/Israele. Posta a meno di 10 chilometri da Gerusalemme e oggi situata nella zona C della Cisgiordania araba, ovvero palestinese ma sotto il controllo israeliano, “Betlemme è un luogo del cuore – scrive Musarra –. Lo è per gli ebrei, che la identificano con la città di David; lo è per i cristiani, che vi collocano la nascita verginale di Gesù; lo è per i musulmani, che venerano in questi, figlio di Maria, la potenza divina”. Un intreccio di narrazioni e identità che la rende al tempo stesso luogo di conflitti e simbolo universale di pace.
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In una sinfonia di storia, archeologia e spiritualità l’autore indaga il mito della città come crocevia di tradizioni religiose e luogo di memoria collettiva, conducendoci attraverso i secoli dalle prime attestazioni bibliche fino alla trasformazione in simbolo universale della natività divina, in una continua tensione tra storia e mito. Un racconto che trova uno dei suoi culmini nella descrizione e nell’analisi della basilica della Natività, della quale sono esplorate le origini e le trasformazioni attraverso i secoli. “Hic natus est, qui è nato”: spazio fisico nel quale spiritualità e arte si fondono, spesso però profanate dal dissidio e dalla violenza. Luogo conteso da secoli – con cattolici, ortodossi e armeni pronti a farsi la guerra tra loro – qui nel 2002 si consumò un lungo braccio di ferro che coinvolse da una parte le forze di difesa israeliane (Idf), dall’altra circa 200 persone asserragliate all’interno della basilica tra civili inermi, monaci cristiani di varie confessioni e miliziani di al-Fatah e Hamas. Una situazione che si rinnova anche oggi in un momento in cui la guerra è tornata a colpire i luoghi santi (non a caso Musarra dedica il suo scritto “a tutti i morti innocenti, di qualsiasi partito, lingua, religione, cultura essi siano”).
In parte studio scientifico ricco di note e spunti, in parte personale libro di appunti di viaggio, quasi come i resoconti scritti dai pellegrini dei loro viaggi in Terra Santa, il volume di Musarra, che insegna storia medievale alla Sapienza di Roma, affronta in modo profondo ma coinvolgente la complessità delle tradizioni riguardanti Betlemme. Con una nota comune che sembra emergere nella fitta sedimentazione di lingue, culture e religioni: il ruolo della narrazione della nascita di Gesù nei momenti di crisi e di trasformazione, nei quali affiorano maggiormente le esigenze di rinnovamento personale e spirituale, ma anche sociale e politico. Ne è un esempio una tradizione oggi percepita come conservatrice e identitaria, ma che affonda le radici nella vita e nel messaggio di uno dei più grandi riformatori medievali: quel Francesco d’Assisi che 800 anni fa a Greccio per la prima volta celebra il mistero dell'incarnazione in praesepio, vale a dire presso una mangiatoia. Proprio come (forse) aveva visto fare a Betlemme.
Un episodio che si riallaccia strettamente alla riscoperta medievale della Terra Santa, in quel movimento di persone e di idee, a volte violento ma sovente anche pacifico, associato alle vicende delle crociate e della presenza latina in Medio Oriente: proprio Francesco infatti, armato solo di fede e povertà, predica di fronte al sultano Malik al-Kāmil, contribuendo in seguito a quella translatio Terre Sancte che progressivamente porta a occidente la spiritualità e la sacralità dei luoghi santi. Allo stesso modo fiorisce la venerazione dei magi, che seguendo il cammino delle loro presunte reliquie arriva prima a Milano e poi definitivamente a Colonia, contribuendo a sua volta alla costruzione simbolica del Natale come oggi lo conosciamo.
Se insomma nel primo millennio la cristianità indugia soprattutto sul concetto del Dio-uomo risorto, proprio Betlemme con la sua iridescenza di storie e di significati contribuisce, grazie anche all'esperienza dei regni latini d’oltre mare, a mettere l’accento sull’uomo-Dio natus et datus, che nascendo si dona. Un tipo di spiritualità essenziale per la nascita della modernità e che non a caso appare più comprensibile all’uomo di oggi, a prescindere dalle tradizioni di appartenenza e dai sempre più frammentati percorsi personali.
Così Betlemme continua a parlarci con il suo messaggio universale: un invito a riscoprire, nel caos del presente, quel senso di umanità profonda che unisce oltre le differenze, ma anche a fermarsi, ad ascoltare e a lasciarsi trasformare da quella luce che ancora oggi – nonostante tutto – continua a brillare nell’ultima delle città di Giuda. Non c’è ascesi che non passi attraverso la kénōsis, lo svuotamento e l’abbassamento che riporta all’essenziale, ed è forse proprio questo, per molti, il significato più attuale del Natale.