CULTURA

Mengaldo e l'attenzione alla lingua e allo stile di Primo Levi

La casa editrice Einaudi ha riunito in  volume tutti gli interventi su Primo Levi di Pier Vincenzo Mengaldo, uno dei nostri maggiori studiosi di lingua e letteratura italiana e per anni docente all’università di Padova. L’acquisizione più importante del libro è l’attenzione alla lingua e allo stile di Levi e al sistema di valori a cui rimandano. Ne parliamo con l’autore.

Professore, lei ha scritto da qualche parte che non ha avuto la possibilità di conoscere Primo Levi, anche se qualche contatto c’è stato, ed esiste anche una lettera se non ricordo male.

Posso dire che lettera è?

Può dirlo.

La prima cosa che ho scritto su Levi è stata una recensione a I sommersi e i salvati nel 1986 e naturalmente l’ho mandata all’autore. Levi mi ha risposto con una simpatica lettera, l’avevo anche invitato a Padova ma in quel periodo era molto occupato, la malattia della madre, e insomma poco dopo, nel 1987, si tolse la vita. Certo che in questa sua raccolta di saggi  si capisce come l’ammirazione per l’opera di Levi sia altissima, ma anche l’ammirazione e il rispetto per l’uomo.

Anche se non l’ho conosciuto mi è sembrato di aver indovinato che uomo era. Ma a parte questo ciò che   questo libro si propone, anche se io non lo esplicito, sono due scopi. Uno è ovvio, cioè di discutere e  far presente innanzitutto il testimone, il testimone si sa di cosa; la seconda cosa per me  più importante al momento  è di far presente la qualità  dello scrittore che, per conto mio, è il maggiore del secondo Novecento italiano. Questo mi pare il punto. Il punto ulteriore è questo: di spezzare una lancia a favore dello stile di Levi, che non è poi lontanissimo da quello di Calvino, uno stile che raggiunge i propri effetti  restando dentro la lingua, non fuoriuscendone. 

In opposizione a una tendenza della letteratura che è il pluristilismo e l’espressionismo, la ‘funzione Gadda’.

Proprio quella. Io non apprezzo più Gadda. Tornando al libro, non mi ripromettevo questi scopi, ma adesso che il libro è uscito, su proposta dell’editore Einaudi, vorrei che, a parte la venerazione per il testimone e i caratteri della sua testimonianza, passasse  anche l’enorme ammirazione per lo scrittore.

In Levi memoria e analisi si sovrappongono, il testimone e il saggista vanno assieme, se è adeguato l’aggettivo ‘saggistico’. 

Mi va bene ‘saggistico’. C’è un punto che ho toccato in qualche saggio ma che vorrei ribadire: la grandezza di Se questo è un uomo, secondo me, sta nel fatto che non è solo un libro di testimonianza, è un saggio. Si pensi solo a come sono organizzati i capitoli, non cronologicamente ma per temi. Prima de I sommersi e i salvatiSe questo è un uomo è già un saggio, e questo è un aspetto della grandezza di Levi.

 Questo comporta una lingua più riflessiva.

Sì. Levi ha sempre affermato che ha scritto il suo libro senza preoccupazioni letterarie, ma non è vero, o se davvero l’ha scritto come lui diceva gli è venuto proprio bene, anzi magnificamente, sebbene non abbia l’ariosità de La Tregua, ma naturalmente la materia del racconto era diversa.

Lei ha insistito sulla razionalità di Levi, scrivendo di una "intrepida volontà" illuminista di capire l’essenza del lager, ma allo stesso propone un Levi più ambivalente e corrusco.

Il carattere razionalistico del pensiero e della scrittura di Levi è innegabile ma quello che occorre mettere in evidenza non sono gli aspetti irrazionalistici, bensì quelli in cui la ragione si ferma, ed entra in gioco qualcosa d’altro. Questo si vede molto bene analizzando la scrittura di Levi. Vedendo per esempio la quantità enorme di figure come quella dell’ossimoro.

Lei mi ha anticipato e a questo volevo arrivare, lo stile di Levi.

Un ossimoro è la compresenza di due opposti, cosa vuol dire in generale? Significa che la realtà è in primo luogo molto complessa e richiede uno stile complesso, lo stile di Levi è chiaro e limpido ma nello stesso tempo complesso. 

In effetti, cosa c’è di più ossimorico dell’espressione leviana ‘follia geometrica’.

Forse il mio amico Cases ha esagerato sul razionalismo di Levi, anche se ne rimane il maggior critico.

Levi è anche il principe dell’aggettivazione. Ho ancora in mente quegli aggettivi che usa per descrivere la sua casa in L’asimmetria e la vita: ‘disadorna e funzionale, inespressiva e solida’. 

Ma vedi che sono ossimorici, ancora una volta, non sono solo aggettivi molto ben trovati, sono proprio coppie. Che lo scrittore proceda molto spesso per coppie di aggettivi, che queste coppie siano così spesso ossimoriche, dice qualcosa che ci riposta alla sua visione del mondo, a qualcosa di fronte al quale la razionalità si ferma, e a questa impassevi si allude mettendo sulla pagina un contrasto.

Questa complessità della realtà e della lingua che ne segue non relativizza un po’ il rifiuto di Levi per lo stile oscuro? In fondo il linguaggio oscuro, per così dire, può essere anche segno di complessità?

Molto semplicemente, mi pare che lo stile di Levi, come quello di Calvino, sia complesso ma non oscuro, questo è il punto. Altri scrittori Gadda, p.e., sono invece nello stesso complessi e oscuri, lo stesso Fenoglio, che è un grande scrittore, qualche volta è complesso e oscuro.

Cases definiva la lingua di Levi come un "paesaggio verbale inconsueto nella prosa italiana". Lei è stato, se non sbaglio, il primo a indagare la lingua di Primo Levi in un saggio del 1990, qui raccolto con il titolo Lingua e scrittura in Levi.

Sì, sono stato il primo anche se oggi direi che quel mio saggio è forse un po’ troppo lungo e oggi farei diversamente. Adesso contrapporrei meglio i diversi registri della lingua di Levi, da una parte Se questo è un uomoe dall’altra i racconti fantascientifici. Oggi punterei di più sulle differenze di genere e quindi  di scrittura. In quel saggio distinguo bene solo La chiave a stella

Certo, per l’uso del dialetto torinese.

Italiano regionale, non dialetto.

La ringrazio per la correzione; possiamo dire ancora qualcosa sullo stile di questo libro universale che è Se questo è un uomo, cioè il cosiddetto presente storico, un sigillo dell’opera. Lei mette l’accento sul passaggio continuo dall’era all’è nel libro.

Per forza, perché è il tratto verbale caratteristico di tutta la parte centrale di Se questo è uomo.  Ed è la cosa  più ovvia del mondo. Il presente storico nella rammemorazione del lager è tale che il lager è sempre presente. Una cosa che troviamo più sporadicamente anche in altri testimoni della Shoah. 

Ci sono altri testimoni in cui troviamo l’intreccio di testimonianza e analisi?

I confronti più efficaci che si possono fare sono con i francesi.

Intende testimoni come Antelme, quello de La specie umana?

Sì, anche se Antelme tende un po’ all’esistenzialismo. Ma direi soprattutto la straordinaria Germaine Tillion, etnologa e allieva di Lévi-Strauss, che viene rinchiusa a Ravensbrűck in quanto partigiana. Ha scritto un libro bellissimo. Tra gli italiani si potrebbe ricordare il notevole Si fa presto a dire famedi Pietro Caleffi. E per finire il decisivo Hermann Langbein di Uomini ad Auschwitz, uno dei libri preferiti di Levi.

Sono tutti di intellettuali, mi pare. Professore era importante avere nel lager una formazione da intellettuale, ai fini non dico della sopravvivenza ma della comprensione? 

Direi di sì. Le testimonianze maggiori dei vari lager sono tutte di intellettuali, non c’è niente da fare. In linea di massima i non intellettuali tacevano. 

Intellettuali anche come Jean Améry, insomma che scrisse Intellettuali ad Auschwitz e ai vantaggi o svantaggi di esserlo nel lager.

Riguardo alla sopravvivenza questo è uno degli argomenti che Levi discute con Améry ed è molto interessante la discussione sul concetto di intellettuale, che per Améry è solo l’umanista mentre Levi gli contrappone giustamente che anche lo scienziato può essere un intellettuale. Comunque è molto difficile stabilire chi è l’intellettuale, anche se lo intuiamo tutti. Forse l’intellettuale è lo specialista di una data specialità umanistica o scientifica che però riesce a coltivare interessi generali e in particolare politici. Forse solo così riusciamo a distinguere l’intellettuale dallo specialista.

Nel suo libro mette al primo posto come grandezza letteraria La tregua, il libro che racconta il ritorno dal lager, Fortini diceva che era il libro più bello di Levi.

Sì, bellissimo libro e direi in Italia unico. 

Per finire, professor Mengaldo, una domanda oziosa e forse anche pelosa, ha qualche ipotesi sul suicidio di Levi? 

In effetti, è un argomento un po’ peloso. Forse la depressione come diceva Giulio Einaudi,  o forse Levi non è riuscito più a dominare il ricordo di Auschwitz, questo è possibile.

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