“E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sen- tirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani né tedeschi, ebbe animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire. Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare?”
Le parole sono di Primo Levi, nell’opera Se questo è un uomo. La vicenda, indelebile, è una delle più drammatiche della storia dell’umanità. Levi descrive la sera del 21 febbraio 1944, la vigilia di una delle tante deportazioni ad Auschwitz. Era detenuto nel campo di concentramento di Fossoli, in provincia di Modena. Il 22 febbraio salì su un treno, insieme a più di 600 persone, 600 storie diverse con un destino in comune. Famiglie forzatamente separate per sempre. Su quel treno c’era anche Corinna Anna Corinaldi, anche lei probabilmente pervasa dalla paura che quella fosse la sua ultima notte: “Arrestata alla frontiera italo-svizzera il 13. 12. 1943 da italiani. Detenuta a Tirano, deportata da Fossoli il 22. 02. 1944 ad Auschwitz. Uccisa all’arrivo ad Auschwitz il 26. 02. 1944”. Queste sono le poche informazioni che riportano le cronache dell’epoca.
Corinna nacque a Padova il 6 maggio 1885, ultima di nove fratelli. I genitori, Emma Treves de Bonfili e Augusto Isacco Corinaldi, erano di origini nobili. Augusto Corinaldi aveva il titolo di conte, ereditato dal padre Michele che ne era stato insignito da Vittorio Emanuele II con decreto regio del 21 aprile 1862, divenendo di fatto tra i primi israeliti a ricevere un simile riconoscimento. Michele Corinaldi si ritirò a vita privata e morì il 31 marzo 1874 nella sua abitazione padovana di via Porciglia 3.146, lasciando dunque il titolo e gli averi al suo unico figlio.
Palazzo Corinaldi Padova - Foto Andrea Signori
La madre, ultima di nove fratelli, ricevette l’educazione tipica delle famiglie nobili di quegli anni. I suoi studi si concentrarono principalmente sulle materie umanistiche con l’apprendimento in particolare dell’arte e della musica.
Corinna nel 1906 sposò Ulderico Segre, laureato in matematica nel 1900 nella Regia Università degli Studi di Roma, tenente, ingegnere e fratello del generale Roberto Segre. Dal matrimonio nacquero sei figli: Claudia, Uberto, Valfredo, Sergio, Giuliano e Diego. Nello stesso anno Corinna Anna Corinaldi lasciò Padova, senza sapere che sarebbe stato per sempre. Stabilitasi a Milano, si ritrovò ben presto sola con i figli, poiché il marito si trasferì, nel 1928, a Parigi.
La donna si dedicò quindi all’educazione della prole, che le diede diverse soddisfazioni. Uberto e Giuliano si laurearono in ingegneria, mentre Valfredo si arruolò nell’aeronautica militare. Quest’ultimo viene ancora oggi ricordato come un uomo tutto d’un pezzo, che, da tenente, all’indomani delle leggi razziali, non solo decise di lasciare il grado e l’arma, ma anche di restituire la medaglia di bronzo al valor militare appena ricevuta. Alla fine del 1938 si trasferì a New York, avendo così salva la vita.
La vita dei Corinaldi, come quella di milioni di ebrei, cambiò completamente in quel periodo. Gli arresti e le deportazioni costrinsero i Segre a fuggire. La vicinanza alla Svizzera permise, nell’autunno 1943, a Sergio, Giuliano e Diego di scappare dall’Italia e da Milano, seguiti poco dopo dalla sorella Claudia, che nel frattempo si era sposata. Anche Corinna Anna e il figlio Uberto tentarono il passaggio in Svizzera, ma il 13 dicembre 1943 i due furono fermati alla frontiera di Tirano e consegnati alle SS tedesche. Questo fu il momento in cui la donna fu definitivamente divisa dalla sua famiglia. Il figlio Uberto riuscì a scappare e a salvarsi mentre la madre fu prima incarcerata a Como, e poi, nel gennaio 1944, trasferita al campo di concentramento di Fossoli. “Carissimo, oggi non ho un gran che da raccontarti, ma siccome la posta parte solo il mercoledì e il sabato, così ti scrivo lo stesso. Speriamo possa darti presto qualche notizia interessante e soddisfacente. La salute è buona, solo da due giorni ho un forte dolore intercostale a destra dove sono stata operata del lipoma. Suppongo siano i nervi che allora sono stati tagliati per staccarli che con l’umidità, qui ce n’è molta, si risentono e provocano un dolore nevralgico. Ma non è certo nulla di serio e non dubito passerà presto, specie quando potrò vivere in altro clima. Qui ho ritrovato il maggiore di Tirano arrivato da pochi giorni da Milano. Mi ha chiesto di te. Il buon vecchio ingegnere è partito per un lungo viaggio, ma non sarà il caso di dirlo ai suoi amici. C’è ora anche il padre del giovane Alberto che ha viaggiato con te. Non so se scriverò sabato [...]. Vi abbraccio tutti e tre. Mamma”.
Sono queste le parole scritte da Corinna Anna Corinaldi in una lettera indirizzata al figlio Uberto il 16 febbraio 1944. Lettera che non arrivò mai a destinazione. La donna non poteva sapere che quelli sarebbero stati i suoi ultimi pensieri rivolti alla famiglia, il suo ultimo contatto con i figli.
“E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere” scriveva Primo Levi. La notte arrivò solo pochi giorni dopo, a cavallo tra il 21 ed il 22 febbraio 1944. Un treno partì da Fossoli in direzione Auschwitz: nel convoglio numero 8 c’era Primo Levi, e nel medesimo, o forse nel 27, ma i numeri in questo caso hanno poca importanza, c’era Corinna Anna Corinaldi. All’arrivo qualcuno fu rinchiuso nel campo di concentramento, altri, tra cui lei, furono uccisi.
“Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per un pezzo di pane, che muore per un sì o per un no”. Oggi di Corinna rimane memoria in una pietra d’inciampo posata il 15 gennaio 2020 in viale Bianca Maria 21 a Milano, proprio davanti all’abitazione che vide crescere lei e i suoi sei figli.
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