Foto di Andrea Signori
Nelle pagine del foglio settimanale de Il Caffè Pedrocchi, forse uno dei più celebri giornali della Padova di metà Ottocento, l’architetto Pietro Selvatico riservò parole d’encomio a una pala conservata nella chiesa di Tribano, piccolo paese di provincia: “Infiniti quadri ci porgono Cristo deposto dalla croce, ma quanto pochi i saviamente composti! Quanto pochi quelli in cui la severità della forma aiuti l’altezza dell’idea, senza cadere in imitazione ed in secchezze inesperte!”. Queste e molte altre note di stima costellarono sempre la vita di Elisabetta Benato Beltrami, pittrice neoclassicista dallo spirito versatile, che seppe destreggiarsi tra pittura, disegno e scultura.
Il percorso personale e artistico di Elisabetta si snoda tra Padova, Venezia, Cremona e Milano. Pur non conoscendo con esattezza la data, si ipotizza che sia nata nel 1812, nella parrocchia di San Francesco a Padova. In uno scambio epistolare tra lo storico e abate Antonio Meneghelli e Pier Alessandro Paravia, docente all’università di Torino, si accenna alle origini non agiate della pittrice che non ostacolarono tuttavia una naturale predisposizione alle arti. Già durante l’infanzia, dedicava il suo tempo libero ad attività creative, intagliando profili su sassi, lavorando la cera per creare statuine oppure utilizzando il cartoncino per costruire palazzi o chiese con “tal garbo e tal sapore che rendeva evidente la sua vocazione”.
Il centro di Cremona dall'alto. Foto: Wikipedia
Meneghelli racconta che le prime lezioni sull’arte, in particolare sul disegno, le furono impartite da un certo Soldan, “pittore di vecchia data e mediocre” di cui però non si hanno notizie. La produzione di Elisabetta – che fin da subito suscitò apprezzamenti – cominciò verso i 15 anni, quando, su consiglio dello zio Orazio Piazza, si dette alla copiatura di stampe dell’incisore fiorentino Raffaello Morghen. Di questa iniziale attività sono testimonianza almeno altre due opere, la riproduzione della Carità di Correggio e dell’Aurora di Guido Reni. Come riporta lo storico padovano, la seconda fu elogiata in ambiente artistico, in particolare da coloro che preferivano il disegno rispetto ad altre arti: “Lo copiò ma con tanta fedeltà che serbò tutte le grazie dei lineamenti e della persona; anzi, a detta dei più, nella precisione delle forme, nella vivacità del guardo, dell’amabilità del sorriso giunse a superare il suo originale”.
Una svolta importante arrivò nel 1832 quando Meneghelli e altre personalità padovane, tra cui l’avvocato Antonio Piazza e l’ingegnere Giuseppe Pivetta, decisero di finanziare gli studi della giovane all’Accademia reale di belle Arti di Venezia. Attraverso una sottoscrizione pubblica gli abitanti di Padova poterono in questo modo sostenere economicamente il percorso formativo della loro concittadina che in cambio si impegnò a destinare due delle sue opere ad altrettanti finanziatori, estratti a sorte. Per il primo anno, Elisabetta poté usufruire di un “alloggio sicuro e decente per 60 lire austriache” a cui si aggiunsero altre 30 lire per ulteriori spese. Per il successivo quadriennio accademico invece, il Comune di Padova nel 1835 decise di stanziare una pensione annua di 750 lire in suo favore. Come primo indirizzo, Benato scelse la Scuola elementare di figura, di durata biennale, e successivamente – come riporta il segretario dell’accademia Antonio Diedo – entrò nella Scuola superiore di Statuaria, dopo aver concluso il percorso precedente con rapidità e intelligenza. La sua ammissione a entrambe le scuole fu un’eccezione rispetto alle consuetudini dell’epoca: dai registri dell’accademia risulta infatti che gran parte delle sue compagne, appartenenti soprattutto all’aristocrazia, erano interessate solamente agli insegnamenti di base.
Nelle diverse lettere che inviavano ai finanziatori, desiderosi di conoscere i progressi artistici della loro concittadina, i professori la dipingevano come una studentessa modello. I risultati non tardarono ad arrivare: tradizionalmente, nel mese di agosto, l’accademia premiava i suoi alunni migliori, attraverso la pubblicazione dei loro nomi nella Gazzetta privilegiata di Venezia e dal 1833 al 1836 Elisabetta fu sempre presente. A dimostrazione delle sue capacità e della sua dedizione allo studio, si aggiungevano anche le parole d’encomio del professore di scultura Luigi Zandomeneghi che, nella Gazzetta, elogiò il suo talento in quest’arte, sebbene Benato avesse scelto come attività principale la pittura.
Dopo la conclusione dei suoi studi in accademia, la giovane conobbe Luigi Beltrami, figlio di quel Giovanni che fu noto incisore e studioso di pietre preziose a Cremona, oltre che socio onorario dell’Accademia di Venezia. Il 26 novembre 1840 i due si unirono in matrimonio e l’anno successivo Elisabetta si trasferì nella città lombarda, dove il marito era nato. Già nel 1842, i coniugi decisero di spostarsi a Milano, in cerca di fama, e poi a Padova, continuando tuttavia a mantenere vivi i rapporti con gli artisti lombardi tra cui Giovanni Carnovali detto il Piccio e Odorico Politi. Con quest’ultimo intrattenne una fitta corrispondenza, nella quale il pittore friulano trovava sempre modo di congratularsi con la collega per la sua incessante attività.
Durante gli anni accademici (in particolare dal 1838 al 1840) e anche successivamente (dal 1850 al 1852), Elisabetta donò diversi suoi lavori alla Commissione di pubblica Beneficienza per la casa di ricovero di Padova, perlopiù ritratti di personalità religiose o di benefattori padovani, disponibili anche per il grande pubblico in forma di litografie. Nel 1843, inoltre, la pittrice proponeva all’Impero austriaco di istituire una scuola di disegno e pittura per le giovani ragazze. Purtroppo, però, non ci sono testimonianze che questa iniziativa abbia avuto seguito, sebbene si possa supporre che Elisabetta abbia impartito lezioni private.
Alla produzione ritrattistica si affiancavano poi i soggetti religiosi: da alcuni documenti, risulta che nel 1850 la pittrice venne pagata dopo la consegna della pala intitolata Beata Vergine col Bambino in cielo e San Prosdocimo e San Siro abbasso. A quel periodo risale anche il dipinto presente nella chiesa di Tribano, raffigurante il Cristo deposto dalla croce.
Negli stessi anni Elisabetta non mancò di esporre i suoi lavori in mostre pubbliche: nel 1855 partecipò, per esempio, all’Esposizione di Milano con due opere, Maddalena e Fiore della passione. Tuttavia, a causa di alcune critiche, nel 1856 la pittrice interruppe questo genere di attività, per riprenderla poi nuovamente nel 1869 con l’Esposizione agraria-industriale e di belle Arti a Padova.
Elisabetta intanto continuava anche a dipingere. È del 1870 Fanciullo con un’arpa, l’acquerello che la pittrice dedicò all’arte poetica, contenuto nell’Albo Cairoli, un volume di testi in prosa e in poesia di scrittrici italiane. Infine uno degli ultimi lavori, secondo gli storici, fu il Ritratto del Marzolo del 1881. Dopo quest’opera non rimangono di lei altre testimonianze artistiche.
Si spense il 18 febbraio 1888, con un pensiero rivolto alla sua Padova: donò infatti alla città la collezione di punzoni di uomini illustri, opera del suocero Giovanni. Così si leggeva nell’edizione del 20 febbraio dell’Euganeo.
"Cristo deposto dalla croce", chiesa di Tribano. Foto di Andrea Signori
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