CULTURA

Romanzi che dipingono la famiglia come prigione

“I personaggi della Drigo si muovono in un irrisolto contrasto tra desiderio di libertà, di vita piena, di amore, e sentimento del dovere, delle regole, delle convenienze, remissività, accettazione paziente della sofferenza, senza che davvero l’autrice si risolva mai ad una presa di posizione univoca”.

Valter Boggione descrive in questo modo – nel volume Paola Drigo, settant’anni dopo edito nel 2009 e curato da Beatrice Bartolomeo e Patrizia Zambon – la tensione continua tra impulsi anarchici e costrizione sociale, tra modernità e conservatorismo, che connota l’opera di colei che oggi è considerata la più rilevante scrittrice di area veneta del primo Novecento. Periodo, questo, che vede affermarsi in Italia, tra le altre, autrici come Grazia Deledda, premio Nobel per la Letteratura nel 1926, e Ada Negri.

Paola Bianchetti, nata a Castelfranco Veneto nel 1876 da una famiglia colta e benestante di Asolo – padre avvocato, corrispondente di Carducci, e nonno deputato –, si fece conoscere come autrice di racconti, su La Lettura de Il Corriere. Il primo, Il ritorno, apparve nel 1912. Nei salotti letterari milanesi stabilì i contatti che le consentirono di inaugurare la sua carriera di scrittrice. Nel 1898 aveva sposato l’agronomo Giulio Drigo, dal quale l’anno successivo ebbe un figlio, Paolo, e una figlia subito perduta

Nel 1900 il marito acquistò la villa di Mussolente (oggi Cremasco), che la famiglia Drigo utilizzò come tenuta estiva. Qui Paola trascorse gran parte delle sue estati, facendovi ritorno da viaggi a Milano, Roma, Parigi, Venezia e dalla casa di famiglia, Palazzo Drigo, in Piazza del Santo a Padova.

Nel 1922 rimase vedova e proprio la difficile gestione del patrimonio del marito la costrinse a posare la penna fino agli anni Trenta. Fu questo periodo che ispirò il suo romanzo più autobiografico, Fine danno.

In uno scambio epistolare con l’amico Bruno Brunelli, scriveva: “Se sapeste quante cose ho dovuto fare in questi ultimi anni, assai più faticose e meno gradite che scrivere delle novelle! Prima la guerra, che sconvolse noi tutti come un ciclone che passasse sulle anime e sui corpi; poi la malattia di mio marito che mi gettò sulle spalle affari, amministrazioni, preoccupazioni d’ogni genere, complicate dall’anarchia dei contadini e dalla mia ignoranza in argomento di agricoltura e di interessi. Feci miracoli, ma mi costarono una grande energia, e mi lasciarono così stanca moralmente, che non vi so dire. Come si può scrivere quando si deve provvedere a concimaie o sorvegliare la tenuta delle stalle?”.

Paola Drigo tornò alla scrittura prima con un volume di novelle (La signorina Anna, 1932) e poi con le sue due opere più mature e compiute, pubblicate da Treves entrambe nel 1936: Fine d’anno appunto, e Maria Zef. Quest’ultima, oltre a essere stata tradotta in molte lingue, è stata resa in due trasposizioni cinematografiche, una del 1953 diretta da Luigi De Marchi e l’altra del 1981 da Vittorio Cottafavi.

I racconti di Paola Drigo sono testimonianze narrative di figure femminili subordinate a una società patriarcale e conservatrice, vittime di sofferenze e oppressioni, alle quali reagiscono anche con violenza, senza tuttavia mai riuscire pienamente a scrollarsi di dosso un destino granitico che sembra invincibile.

È il caso di Rosa, povera e bellissima contadina del racconto di apertura di Fortuna (la prima raccolta pubblicata nel 1913), che va in sposa a Folco, figlio malaticcio e dissipato del conte Ademaro Novelli-Casazzi, proprietario del fondo che lei coltiva. O di Adelaide, finita in convento in seguito a una sfortunata passione fanciullesca. Vi uscirà dopo dieci anni, ma solo per finire oppressa dalle trame familiari.

Secondo Valter Boggione, nei personaggi di Paola Drigo “il desiderio di libertà si scontra sempre con i ruoli sociali, i legami famigliari, i doveri morali, l’obbligo del decoro, i valori religiosi”. La fortuna allora non è tanto la buona sorte, quanto una tragica fatalità da cui non ci si riesce a sottrarre. Anzi, i pochi e limitati successi possono solo derivare dall’accettazione del proprio destino. A ogni slancio di libertà deve sempre seguire il rientro nei ranghi.

I personaggi hanno le sfumature dei vinti di Verga; nella stagione dello sperimentalismo, futurista e vociano, che apre il Novecento “i testi di Drigo sembrano rimandare a un altro percorso, di ascendenze nettamente ottocentesche”. E tuttavia il percorso è più complesso: alcuni suoi personaggi infatti hanno, o sviluppano loro malgrado, la remissività dei Dubliners di James Joyce (grande innovatore di quegli anni), di quella Eveline che, per quanto tenti di forzare la mano al destino, è incapace di andarsene, e destinata a non cambiare. Ma diversamente dalla Gente di Dublino, non è la paralisi quella che li affligge. Vi è coraggio e dignità nelle loro azioni, che a volte sfociano in tentativi di ribellione, che pure falliscono. Le aspirazioni rimangono insoddisfatte: ne deriva l’apatia e “un’etica di ascetica sopportazione del male”.

Maria Zef costituisce una parziale eccezione alla regola. Nello svolgersi della vicenda, Mariute, giovane solare nonostante la miseria in cui cresce, perde progressivamente gli affetti e le speranze: abbandonata dal padre (morto in terra americana), perde prima la madre (malata e sfiancata dal troppo lavoro) e poi la sorella (che scomparirà dalla scena in un letto di ospedale), fino a ritrovarsi sola in un casolare, affidata allo zio (“Barbe” in dialetto), che alcolizzato abusa di lei.

La protagonista però non si piega alla rassegnazione, non sceglie il suicidio (come era stato per Innocenza in Fortuna); la tensione tragica viene condotta a compimento in un gesto violento: l’uccisione dello zio. Le catene del destino vengono spezzate. Ma non si tratta di una conquista rassicurante o liberatoria, è un colpo di scure, angosciante, che squarcia la realtà e rivela l’ignoto. Il romanzo si conclude con questo gesto.

Le vicende narrate da Paola Drigo sono la proiezione di una condizione di costrizione che l'autrice deve avere in qualche misura avvertito in vita. Nonostante la provenienza da una famiglia dell’alta borghesia, rende con vivo realismo vicende, per lo più ambientate in realtà contadine e paesi di montagna, dove domina la miseria. Maria Zef venne accolto con favore dalla critica, ma proprio quando conobbe la gloria in vita, Paola Drigo si ammalò e pochi mesi dopo morì, nel 1938 a Padova, il giorno del suo sessantaduesimo compleanno. Quasi come il destino le abbia voluto ricordare che la fortuna che aveva riservato ai suoi personaggi spettasse anche a lei.

A Padova aveva fatto definitivamente ritorno nel 1937 e dalla sua casa in Riviera Paleocapa scrisse l’ultimo suo testo, nel quale parla di se, malata, e di Padova, vista dalla finestra di casa: “Tra le due basse rive colorate di innumerevoli verdi, guardo l’acqua del fiume eternamente scorrere. E al di la del fiume, grandi campi arati, odore di terra bagnata, gli Euganei azzurri al limite dell'orizzonte. Quanto bella sei, malgrado morte o vita, o natura! Il faut être toujours botté et prêt à partir... [bisogna sempre essere pronti a partire] No, non sono pronta. Lasciami qui ancora un poco, o mio Dio”.

Nel 1996 Claudio Magris, al Salone del Libro di Torino, parlò di Maria Zef nei termini di un “libro straordinario, al quale non è stato ancora assegnato il posto che gli compete nella letteratura italiana del ’900, […] un grande libro femminile, che non poteva essere scritto certo da un uomo, e che afferma tanto più fortemente la propria femminilità in senso forte e dirompente, senza alcuna indulgenza alla femminilità tradizionale vista e/o creata dagli uomini”.

La produzione di Paola Drigo segna un momento di discontinuità nella storia letteraria italiana: porta le donne al centro delle vicende, descrive un mondo altrimenti trascurato, dimenticato, tratteggiandone le asperità, la sofferenza, rivendicandone la libertà. Secondo Saveria Chemotti, questa scrittura femminile non è “scrittura originale” solo perché “diversa per temi, per i messaggi”, ma anche “per l’impasto stilistico”, “scruta la vita da un punto di vista diverso, penetra gli avvenimenti della storia pubblica e di quella privata, coglie e scrive la sfera della propria quotidianità e della propria soggettività come specchio e riflesso della scansione di giorni circoscritti, ma non segregati”.

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