CULTURA

Cinque protagoniste della Resistenza a Padova

“Non si poteva dire di no”. Così si apre il capitolo dedicato alle donne della Resistenza padovana scritto da Luisa Bellina in Voci di partigiane venete, libro uscito nel 2016 a cura di Maria Teresa Sega. E sono cinque le figure di cui narra, cinque padovane sulle oltre trenta venete su cui si sofferma il volume: ancora poche se si pensa che quelle organizzate nelle formazioni partigiane sono state 385 e le patriote 154.

La Resistenza veneta ebbe inizio l’8 settembre 1943 – giorno in cui fu firmato l’armistizio di Cassibile con gli Alleati della Seconda guerra mondiale – con il Comitato di Liberazione nazionale veneto: molte furono le persone coinvolte, sia uomini che donne, e fitta la rete di scambi e contatti per respingere il nazifascismo e portare in salvo i prigionieri alleati fuggiti dopo l’8 settembre. Ed è proprio in quel comitato che sono coinvolte le cinque donne padovane a cui dà voce Maria Teresa Sega nel suo libro.

La prima: sedici anni e due lunghe trecce. Delfina Borgato nasce a Saonara nel 1927 e, finita la quinta elementare, inizia a lavorare come apprendista sarta. Dopo l’8 settembre, insieme alla zia Luigia Maria Pucheria, si dedica ad aiutare i prigionieri inglesi fuggiti dal campo di lavoro vicino a casa sua, portando loro da vestire e alimenti. Entra poi in contatto con le sorelle Teresa e Luigia Martini che supporta nel guidare i prigionieri, percorrendo la notte, insieme a loro, quegli undici o dodici chilometri che li separavano dalla stazione di Padova dove questi potevano prendere un treno alla volta della Svizzera. Nel 1944, a seguito di una retata fascista, Delfina e la zia Maria vengono deportate dapprima nel carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia, e Delfina, in seguito, a Bolzano, a Mauthausen e a Linz. Tornerà a Padova a guerra finita, dove morirà nel 2015.

Clara Doralice, nata nel padovano, a Castelbaldo nel 1926, invece, cresce in una famiglia antifascista e socialista per tradizione, facendo parte da subito della Resistenza veneta. Per un periodo vive in clandestinità occupandosi del fratellino di venti mesi, mentre il padre e l’altro fratello sono impegnati nelle brigate a Saronno e la madre è internata in Germania. Nei suoi racconti ricorda che le donne impegnate nella Resistenza erano molte, indipendentemente dal grado di istruzione: che avessero la quinta elementare o fossero più avanti negli studi tutte si dedicavano con grandi sacrifici alle attività necessarie tra cui cucire portamunizioni recuperando la stoffa di paracadute ritrovati in giro. Ma le differenze culturali e sociali non avevano alcuna influenza sull’amicizia e sull’unione del gruppo. L’impegno di Clara si sarebbe protratto anche dopo la guerra, nel tentativo di trasmettere ai giovani il valore della lotta per la libertà.

Più anziana delle precedenti è invece Eleonora Lista, nata a Padova nel 1910, che nel corso della sua vita si spende per aiutare a fuggire i perseguitati dal fascismo, nonostante lavori per i tedeschi. Fa la spola tra Verona e Vicenza semplicemente per “salvare qualcuno”, tanto che quando, a guerra finita, le succede di ascoltare alla radio l’invito a palesarsi rivolto a chi come lei si è speso per aiutare il prossimo, ne resta stupita e pare abbia detto:

Sono cose che si fanno in quel momento perché bisogna farle. Non per avere un riconoscimento

In contatto con le già citate Delfina Borgato e Luigia Maria Pulcheria è Carla Liliana. Sin da liceale era entrata a far parte della “rete” che si occupava di far fuggire i soldati alleati e gli ebrei dai campi di prigionia: è il cosiddetto gruppo “Frama”, dal nome di Ezio Franceschini dell’Università Cattolica di Milano e Concetto Marchesi, rettore dell’Università di Padova nel 1943. Questa rete si appoggia al frate francescano Placido Cortese che riesce a salvare più di trecento donne e uomini tra ebrei e soldati degli Alleati. Liliana racconta che per portare in Svizzera i fuggitivi venivano usati documenti d’identità realizzati appositamente, da un’idea di Placido Cortese, con gli ex voto dell’Arca del Santo:
quelle fotografie che il frate riceveva da tutto il mondo in cambio delle grazie ricevute. Nel 1944 Liliana viene condotta al carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia e poi deportata a Mauthausen e
a Grien an Donau. Rientra a Padova un anno dopo. Quando, in età avanzata, le viene chiesto se, trovandosi nuovamente in quella situazione, avrebbe agito allo stesso modo, non ha dubbi: “Si può
fare comunque del bene, si può contribuire ad alleviare le sofferenze altrui con quello che abbiamo, penso che tutti possiamo farlo”.

Si può fare comunque del bene, si può contribuire ad alleviare le sofferenze altrui con quello che abbiamo, penso che tutti possiamo farlo

Maria Zonta, a differenza delle altre donne della Resistenza padovana fin qui descritte, è inserita anche nella distribuzione della stampa clandestina. Di famiglia antifascista, a quindici anni inizia a lavorare nella azienda tessile Viscosa di Padova, si avvicina al sindacato, partecipando e organizzando scioperi. Questa sua attività specifica la vede coinvolta in particolare dopo l’8 settembre 1943 ma già nel 1944 è incarcerata a Venezia e deportata nel campo di Bolzano e poi
di Ravesbruck. Riuscirà a tornare a casa finita la guerra ricordando sempre l’affetto che accomunava i sopravvissuti incontrati dopo il periodo in carcere e la determinazione che l’aveva sempre motivata a resistere, ben sintetizzata nelle sue parole: “Non avevo paura di rispondere”.

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