CULTURA

Un nuovo tipo di carità: riscattarsi con il lavoro

Stephanie Etzerodt, nota con il nome italiano e il cognome del marito, Stefania Omboni, dacché vive e opera in Italia, nasce a Londra da madre inglese e padre tedesco, trascorre l’infanzia a Bruxelles, poi la famiglia – pare che avessero un’attività commerciale o che il padre fosse un diplomatico – si trasferisce in Russia, quindi in Crimea per ritornare infine in Belgio. Passando per Milano, Stefania approda infine a Padova dove ha modo di fondare il primo giardino froebeliano della città. Era la fine del XIX secolo, e si cominciava ad assistere, anche in Italia, a quel fenomeno che sarebbe stato poi definito “primo femminismo”, o “emancipazionismo”, e che avrebbe visto in figure come la sua una precisa rappresentazione.

Era infatti una donna cosmopolita – parlava fluentemente, oltre all’italiano, il francese, l’inglese, il tedesco e il fiammingo –, suonava il pianoforte, non era laureata ma sua è la traduzione dell’opera del filosofo germanico David Strauss L’antica e la nuova fede e, fatto non trascurabile, era una donna laica.

Nel suo testamento infatti, non avendo avuto figli dal consorte, il docente di geologia Giovanni Omboni, nominava come unico erede l’Istituto per l’Infanzia abbandonata, la struttura di accoglienza dai caratteri innovativi che aveva fondato in città nel 1895, ma questo sarebbe potuto accadere a una condizione. Che l’istituto conservasse il carattere di laicità che lo aveva contraddistinto fin da subito. L’istruzione religiosa sarebbe stata garantita, ma amministrazione, direzione, insegnanti e assistenti avrebbero dovuto continuare a essere laici, pena la consegna dell’eredità a un istituto altro, di Milano, con finalità analoghe. E nonostante il poderoso lascito, che permise di risanare il bilancio e fu accettato dal consiglio di amministrazione il 12 marzo 1918, un anno dopo la sua morte, proprio per volontà testamentaria della fondatrice l’istituto non ne prese il nome.

Moltissime furono le attività in cui Stefania Omboni si spese, in particolare la fondazione di strutture in favore delle donne e dei ragazzi, senza mai risparmiarsi in appelli, dibattiti, convegni, congressi dove perorava le sue cause e difendeva le sue convinzioni, in particolare la possibilità di riscatto offerta dal lavoro. Era stata lei stessa, in prima linea, volontaria durante la Grande guerra nell’Ospedale militare di Santa Giustina, pur essendo dichiaratamente pacifista, e aveva scritto su diversi giornali come La donna di Gualberta Beccari, L’Italia femminile, al quale collaborava anche Virginia Olper, e infine su Unione femminile, fondato da Ersilia Majno.

Stefania Omboni fu, in generale, responsabile di una serie di novità in ambito sociale, morale e assistenziale: contraria alla prostituzione, alla tratta delle bianche, al consumo di alcolici e alla carenza di igiene nei luoghi pubblici e privati, voleva riformare i modelli del suo tempo per educare al vivere civile, offrendo un’opportunità anche a coloro cui la sorte pareva negarne. Il suo concetto di carità e di beneficenza si allontanava dalla vulgata propugnata fino ad allora dalle istituzioni religiose, considerando fondamentale la comprensione dell’altro, in primis dei diseredati, e volendo cercare per questi una possibilità.

Si può dire che declinò la filantropia, come diverse sue contemporanee sia del mondo protestante che cattolico, in un’occasione di realizzazione di sé e di riscatto per altri: le donne, all’epoca, non avevano molti altri modi, infatti, di entrare nella sfera pubblica.

Fondò l’Associazione padovana contro l’accattonaggio, l’Asilo per donne sole, la Scuola professionale femminile, la Società zoofila, l’Ufficio di assistenza, l’Unione morale, l’Università popolare, e di tasca sua finanziò l’apertura della prima Cucina economica in città, presso la quale fornì diverse centinaia di pasti caldi ai bisognosi durante l’epidemia di colera del 1886. Lo stesso anno, per questo e per molto altro, fu premiata con una medaglia d’argento dal governo, nel 1894 con la medaglia d’oro del premio Malipiero alla virtù istituito dal Comune di Padova e sei anni dopo le sarebbe stato conferito ancora un altro massimo riconoscimento da parte del Ministero della pubblica Istruzione.

Ma c’è di più: fu una vera e propria teorica dell’educazione. Il suo capolavoro venne in coda e fu la fondazione, a Padova, dell’Istituto per l’Infanzia abbandonata, appunto.

La crescita della struttura avvenne in modo costante: aperto nel marzo del 1895 in via Santa Chiara in due locali concessi gratuitamente dal comune e formato da 12 giovani semianalfabeti senza lavoro tra i dieci e dodici anni, a dicembre ne ospitava già 35 e, di necessità, fu trasferito in un piccolo edificio di via San Tomaso e quindi nel complesso più grande, con un cortile e un orto, di via Campagnola, in grado di accogliere circa un centinaio di minori.

In questi luoghi i ragazzi venivano ospitati solo di giorno, nutriti e istruiti, e poco importava che fossero orfani o meno: trovavano asilo anche coloro che erano semplicemente trascurati o alla cui crescita nessuno sovrintendeva. Omboni non volle mai allontanare i figli dai genitori, anzi cercò più volte di coinvolgere questi ultimi nel progetto educativo: “Persone che oggi sono sfortunatamente considerate dei criminali – scriveva – sarebbero potuti diventare cittadini buoni e onesti se si fossero ascoltate in tempo le loro grida dolenti”. Il suo sistema d’intervento voleva essere non tanto assistenziale ma “preventivo”.

E per quanto le sue teorie educative fossero evolute, risentivano pur sempre degli stereotipi e dell’immaginario dominante di fine Ottocento, perciò l’istituto, che inizialmente ospitava solo maschi, prese sì ad accogliere anche bambine, conservando la rigida separazione tra i sessi, ma mentre educava i primi al lavoro, alle seconde era insegnato a ricoprire il ruolo di moglie e madre e solo a loro venivano affidate le faccende domestiche.

A nessuno però era chiesto in alcun modo il versamento di una retta, grazie alle donazioni dei padovani e agli stessi investimenti della direttrice – che fece di questo suo impegno una ragione di vita –, tutt’altro: i lavori compiuti dai giovani ospiti erano giustamente remunerati di modo che, una volta lasciata la struttura, potessero disporre di un piccolo fondo su cui far conto. Una visione moderna, modernissima, che affonda le sue radici, dunque, nel pensiero di una donna vissuta più di un secolo fa.

 

Di seguito il racconto che fa di lei Patrizia Zamperlin:

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