CULTURA

Gli umani in Europa fra Paleolitico e Neolitico, un piccolo caso marchigiano

Capita spesso che i nostri concittadini europei contemporanei abbiano un’idea approssimativa del Paleolitico e dei cugini Neandertal, con pochi approfondimenti scientifici ed emotivi. Nella maggior parte dei casi probabilmente si tende a collocare quegli umani in un contesto di ghiaccio e mammut, figure buzzurre e sfinite, su lande ghiacciate, sopravvissute a fatica fino all’arrivo di noi potenti Sapiens. Gli stereotipi sono duri a morire: sono ben vissuti in decine di migliaia nell’intero continente euroasiatico occidentale, con enorme estensione sia nel tempo (finora sono “durati” per più centinaia di migliaia di anni della nostra specie) che nello spazio (dal Galles a confini più a est, la Cina, e a sud, i margini dei deserti arabi), con enormi varietà culturale, complessità ed evoluzione. La quantità rilevante di reperti e di siti (pur ancora incommensurabilmente distante dalla “totalità” delle vite vere e degli insediamenti reali) consente di ragionare sulla specie neandertaliana come un insieme articolato di abitudini e di incarnati, di esperienze manifatturiere o artistiche, di forme associate o sociali.

Il patrimonio archeologico statico diventa dinamico quando viene illustrato: vediamo come gli utensili si muovono nei siti e vengono portati via distribuendosi nel paesaggio. Possiamo addirittura compiere il percorso inverso, risalendo alla roccia originaria. E sappiamo ricavare informazioni incredibilmente dettagliate anche dai corpi, dai reperti ossei mineralizzati (fossilizzati), ritrovati quasi per intero o in parte, da quasi un secolo e mezzo a ora. Vissero dall’Europa atlantica all’Asia (ben oltre il Mar Caspio), da oltre 400.000 a circa 40.000 anni fa (quando siamo rimasti soli, almeno in Europa). L’immensa distesa del mondo neandertaliano, che abbraccia migliaia di chilometri e oltre 350.000 anni, non dà tuttavia conto “completo” di dove fossero e come convivessero. 


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Una mappa minima di un centinaio di siti neandertaliani colloca i luoghi dove sono state finora rinvenute tracce studiate della specie Homo neanderthalensis fra la costa atlantica degli attuali Spagna e Portogallo e i picchi montuosi Altaj in Siberia, ovviamente più concentrate a ovest che a est, segnalando in grigio chiaro l’estensione maggiore delle terre emerse nei periodi glaciali di abbassamento del mare (per esempio senza Manica e Mare del Nord, con la linea dell’Adriatico fra Gargano e Albania attuali). Fra di loro troviamo una decina di siti italiani (Liguria, Veneto, Toscana, Campania, oltre ai molteplici in Veneto, Lazio, Puglia). Ognuno spesso risulta diacronico rispetto all’altro, è come se si mettessero accanto etruschi e nuragici. Probabilmente i cari Neandertal vissero da altre parti fra le nostre Alpi e i nostri mari, non molto è stato ancora scavato e repertato, non tutto di quel che si sa e si intuisce è stato approfondito. E, definitivamente, loro non ci sono più da decine di migliaia di anni, mai sapremo tutte le residenze, gli spostamenti, gli intrecci; restano nel nostro Dna, come in quello di gran parte delle popolazioni euroasiatiche.


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Le coste marchigiane: ecosistema appetibile per gli insediamenti umani

I siti non erano semplici mete, ma intersezioni, nodi di reti che si estendevano per centinaia di chilometri migrabili. Forse i Neandertal sono capitati anche sulle coste adriatiche marchigiane (con il livello mediterraneo molto differente rispetto a oggi), pur non “repertati”. Nel piccolo delizioso Antiquarium Statale di Numana in provincia di Ancona capiamo subito come il Monte Conero risulti geologicamente cruciale, una piega dell’appennino umbro-marchigiano e, con i suoi 572 metri di altezza (attualmente), è l’unico promontorio roccioso lungo la costa adriatica da Trieste al Gargano. La sua posizione dominante e le caratteristiche ambientali l’hanno da sempre reso ecosistema appetibile per l’insediamento umano, denso di biodiversità vegetali e animali e poi crocevia di culture. Le prime attestazioni di popolamento risalgono al Paleolitico, legati alla ricchezza di acque, boschi, rocce, selvaggina; pur se quasi certamente il rapporto diretto con il mare inizi soltanto con il lento termine dell’ultima glaciazione e il Neolitico, quando il livello del Mediterraneo “risalì”.

Ancora nel Paleolitico superiore (fra cento e quaranta mila anni fa) i gruppi di cacciatori, sia Neandertal (in Europa e in Italia da centinaia di migliaia di anni) che poi Sapiens (giunti qui da meno di centomila), più o meno parallelamente, più o meno ciclicamente, tendevano a frequentare gli ecosistemi ricchi di selce, pietra dura e tagliente con cui potevano essere utilizzati utensili, oggetti e armi, come il Monte Conero. Lì, nel sito archeologico del Pantano, sono state scoperte frequentazioni risalenti addirittura all’ultima fase del Paleolitico inferiore, tra duecento e centoventi mila anni fa, e sembra, dunque, possibile ipotizzare che fossero solo Neandertal, tracce rinvenute sempre da allora in avanti. Se ci capitate ora, la costa a sud e sotto il Monte Conero è una piccola perla del Mediterraneo, diciamo un anfratto di costiera amalfitana in miniatura fra i piccoli deliziosi comuni di Numana e Sirolo (poco più di settemila residenti in due) e l’incanto della baia di Portonovo (Ancona, capoluogo regionale).

Già a fine '600 il Conero è sede dei primi ritrovamenti di interesse archeologico

In una vetrina luminosa del museo di Numana è, dunque, possibile vedere choppers e bifacciali, tra i più antichi manufatti umani, ricavati attraverso la scheggiatura da un unico ciottolo e adatti solo per la presa manuale. Alcuni raschiatoi e grattatoi erano ricavati da schegge staccate da un nucleo di pietra con tecnica di scheggiatura molto arcaica. I manufatti potevano servire a molti usi: per esempio smembrare e macellare gli animali uccisi, tagliare e raschiare pelli e legno. Ne sono esposti anche altri, di scheggiatura recente e innovativa, la tecnica Levallois, che consentiva di ricavare schegge di forma e lunghezza predeterminata, più sottili rispetto ai precedenti, potenzialmente legabili ad aste di legno e usabili pure come armi (lance) per la caccia. Non è stato ancora possibile studiare la genetica, l’articolazione archeologica e la stratificazione temporale della presenza sul Conero delle varie specie umane e, ovviamente, l’antiquarium contiene soprattutto reperti neolitici di noi Sapiens. 

La più antica notizia di scoperte archeologiche a Numana e Sirolo sul Monte Conero risale al 1697. Rinvenimenti fortuiti e significativi avvennero sia nell’Ottocento che all’inizio del Novecento. È solo a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso che vennero intraprese dalla Soprintendenza Archeologica vere e proprie campagne di scavo, alcune tuttora in corso, fertilmente. Fra l’altro, hanno portato alla luce oltre duemila sepolture della necropoli picena, databili circa tra il IX e il III secolo a.C.. I reperti furono esposti nel Museo Archeologico Nazionale delle Marche ad Ancona dal 1911 e, dopo il terremoto del 1972, furono in parte trasferiti proprio a Numana. L’antiquarium venne aperto nel 1974 come sede espositiva delle collezioni del territorio. Pochi anni fa il piccolo museo archeologico di Numana è stato poi oggetto di una bella ristrutturazione, di un completo ammodernamento e di un apprezzabile riallestimento articolato su due piani: espone una sintesi dell’evoluzione storico-culturale dell’area dell’antica Numana e della riviera del Conero, dalla preistoria fino all’età romana. 

Le molte novità scientifiche, il restauro di alcuni cimeli e rilevanti miglioramenti nella fruibilità hanno consentito all’esperta competente direttrice Nicoletta Frapiccini di offrire spazi godibili e formativi ai molti nuovi visitatori, sempre di più gli studenti e le studentesse, che tornano anche più volte l’anno. La nuova esposizione ha mantenuto alcuni imprescindibili nuclei di reperti, fondamentali alla comprensione della lunga storia del territorio, con particolare riguardo ai traffici dell’emporio di Numana, a documentarne la forte vocazione mercantile e i contatti nell’ambito del Mediterraneo durante il Neolitico. Il percorso, arricchito e integrato da alcuni contesti mai esposti prima, si snoda a partire dal secondo piano, dove la prima sezione segue un criterio cronologico, dalla preistoria all’età romana. L’eccezionale sito di Fosso Fontanaccia ha restituito anche forni per uso alimentare, tra i più antichi d’Italia. Sia gli strumenti litici (sempre più piccoli e specializzati) che la ceramica (sempre più decorata) documentano i vari periodi del rame, del bronzo, del ferro, progressivamente (senza automatismi e assolute sincronie in Europa) da sei mila anni fa; via via i segni di tanti villaggi, le tombe a grotticella, tanto vasellame, utensili vari. Poi grande spazio alla civiltà Picena, al meticciamento culturale, all’età romana.

La vera e propria straordinaria “chicca” visibile oggi a Numana è l’incantevole sontuoso corredo funerario della Tomba della Regina, risalente alla fine del VI secolo a.C., che occupa quasi l’intero primo piano, ricchissimo di vasellame attico e piceno, di manufatti in bronzo, di gioielli in avorio, bronzo e ambra, insieme ai resti di un calesse e un carro da guerra. Scoperta nel 1989 nella necropoli I Pini di Sirolo (territorio dell’antica Numana romana, oggi comune di Sirolo), costituisce una delle più ricche sepolture picene mai esposte. Un fossato anulare di oltre quaranta metri di diametro e circa due metri di profondità ospitava tre fosse con centinaia di manufatti. Nella prima fossa era deposta la defunta, rannicchiata sul lato destro con i suoi oggetti personali (ora esposti): gioielli in bronzo, avorio, pasta vitrea e ambra; calzature; un ventaglio; due unguentari; un piatto da libagioni in argento e lamina d’oro. Accanto al capo e ai piedi erano deposti un carro da guerra (forse una biga) e un calesse, smontati e defunzionalizzati. Una seconda fossa accoglieva gli scheletri di due equidi (forse due mule), probabilmente quelli che trainavano il calesse; una terza fossa conteneva le suppellettili della casa, in ceramica e in metallo, come i vasi attici da simposio, il lettino cosiddetto Klìne in legno avorio ambra, gli oggetti di produzione etrusca, molto vasellame di produzione tipicamente locale. 

Un’ultima sala è infine dedicata ad alcuni dei cimeli più interessanti della ottocentesca Collezione di Girolamo Rilli, appassionato amante dell’antico, che raccolse numerosi reperti dal territorio. Alcuni approfondimenti su temi specifici, quali il simposio, la diffusione dell’ambra, la produzione dei vasi alto-adriatici, lo studio antropologico condotto sui resti scheletrici rinvenuti nelle sepolture, intendono offrire spunti di riflessione al visitatore e, in alcuni casi, nuove informazioni scaturite dalle più recenti ricerche scientifiche. 

Non mancano alcune originali “spigolature”, come la tegola di età romana utilizzata per la copertura di una tomba, con la rappresentazione di una nave graffita a crudo sull'argilla fresca: uno schizzo che immaginiamo eseguito dal vivo da un artigiano assai creativo, autore di un vivido brano di quotidianità. 

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