SCIENZA E RICERCA

Migrazione e crisi climatica: un nodo complesso

Troppo spesso la rappresentazione della migrazione sui mezzi di comunicazione è monodimensionale e semplicistica. Si legge che le persone migrano perché fuggono da un conflitto, perché cercano un futuro di migliori opportunità economiche per sé e i propri figli, perché un disastro naturale ha distrutto i loro mezzi di sussistenza. Sono sicuramente elementi importanti, ma le ragioni che spingono o costringono le persone a spostarsi sono molte e complesse. Recentemente, ne ha scritto Federica D’Auria su IlBoLive, una serie di studi pubblicati su PNAS ha per esempio affrontato la complessa relazione tra migrazione e sviluppo sostenibile, mostrando come sia un rapporto complesso e non ancora molto esplorato dalla ricerca. 

Uno dei grandi temi che rimane sul piatto della discussione pubblica è l’impatto della crisi climatica sulla migrazione. Fin nel 1990 il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, l’IPCC, osservava che l’impatto maggiore del cambiamento climatico potrebbe riguardare la migrazione umana, con milioni di persone sfollate a causa dell’erosione delle coste, delle inondazioni costiere e del dissesto agricolo. Ma quante persone? Le previsioni dell’IPCC cadevano in un momento degli studi sulla migrazione in cui si stavano effettuando i primi consistenti tentativi di quantificare quelli che oggi la stampa indica come migranti o rifugiati climatici. 

Qualche dubbio

Quell’ondata di studi è culminata in una stima divenuta il punto di riferimento, adottata anche da alcuni documenti successivi dell’IPCC. A effettuarla è stato Norman Myers, ricercatore dell'Università di Oxford (Regno Unito). In un suo intervento al tredicesimo Economic Forum di Praga del maggio del 2005, Myers sosteneva che “potrebbero essere fino a 200 milioni le persone colpite dall’interruzione dei sistemi monsonici e da altri regimi di precipitazioni, da siccità di gravità e durata senza precedenti, dall’innalzamento del livello del mare e dalle inondazioni costiere”.

All’interno della comunità che studia il fenomeno migratorio c’è da sempre una certa frizione tra chi ha un approccio quantitativo, come Myers, e chi invece ne predilige uno qualitativo. Per capire la migrazione “abbiamo bisogno della storia delle persone”, ci spiega via Zoom Fanny Thornton, ricercatrice esperta di migrazione e cambiamento climatico al Potsdam Institute for Climate Impact Research (Germania). “Dall’altra parte, invece, chi si occupa delle politiche migratorie è più interessato ai numeri”, perché si deve occupare di gestire il fenomeno. 

Nuovi studi locali

Thornton sottolinea che gli studi quantitativi realizzati una ventina di anni fa, come quello di Myers, sono stati molto criticati. Il motivo principale è la riduzione delle dimensioni della migrazioni che non rendevano sufficientemente conto della complessità della situazione. “Oggi c’è una nuova ondata di studi quantitativi”, racconta Thorton, “che posano su metodologie più aggiornate”. Tra questi c’è per esempio una ricerca guidata da Lisa Thalheimer in Somalia in cui un aumento di uno o due gradi di temperatura potrebbe provocare un aumento di dieci volte del numero di persone che si mettono in movimento. Una riduzione da 50 mm a 0 mm di precipitazioni locali, invece, aumenterebbe di quattro volte le partenze. Questo studio è considerato più solido perché si concentra su alcuni fattori specifici (la quantità di pioggia e le temperature medie) e lo fa su una dimensione locale. Non c’è neppure un tentativo di stimare il numero di potenziali persone migranti, ma una più semplice relazione dell’influenza di alcuni fattori sul volume di potenziali partenze.

Un altro aspetto che Thorton sottolinea, echeggiando Dina Ionesco, una delle autrici di The Atlas of Environmental Migration pubblicato dall’International Organization on Migration (IOM), è che a differenza di altri tipi di migrazione, quella dovuta alla crisi climatica è più spesso a breve raggio, spesso all’interno della stessa nazione di origine delle persone migranti. Si parla, quindi, di sfollati interni (“internal displaced persons”) e le stime più recenti (2022) indicano in circa 9 milioni il totale a livello globale. Un numero relativamente piccolo se confrontato con gli oltre 62 milioni di persone sfollate interne a causa di conflitti di vario genere. 

Il futuro

Il numero di persone sfollate a causa dei disastri ambientali, figli della crisi climatica, come gli eventi estremi, le inondazioni o le ondate estreme di calore che distruggono l’agricoltura locale, è però destinato a crescere con l’inasprirsi delle condizioni. Su questo punto, c’è convergenza di opinione tra chi studia la migrazione. Una delle fonti più affidabili sulle proiezioni numeriche in questo campo è il Groundswell Report pubblicato dalla Banca Mondiale. L’ultima edizione è del 2021 e stima che al 2050 le persone costrette a migrare all’interno del proprio paese a causa della crisi climatica saranno oltre 216 milioni. Un numero che è molto simile a quello delle previsioni di Myers di vent’anni fa.

Quello che il Groundswell Report aggiunge rispetto ai primi studi quantitativi è però una suddivisione per regioni delle proiezioni. Se si guardano ai dati non in numeri assoluti, ma come percentuale della popolazione, emerge chiaramente una distribuzione ineguale del fenomeno. Un fattore che torna a confermare la complessità del fenomeno migratorio sottolineata dai recenti studi del team di Neil Adger pubblicati su PNAS. Possiamo dire che, in qualche modo “un gentile richiamo al problema della giustizia o ingiustizia climatica”, chiosa Thornton.

Un problema di definizioni

In tutti questi studi rimane però vago che cosa sia un migrante o un rifugiato climatico. Come ci ricorda Fanny Thornton, che ha una formazione in legge, non esiste una definizione condivisa di chi sia un migrante o una migrante che si muove a causa della crisi climatica. Da una parte, come abbiamo visto, c’è una grande complessità di fattori che determinano la partenza. Per questo, l’approccio che tenga in considerazione le storie dei migranti è importante per capire il fenomeno: quasi mai è un solo fattore a spingere le persone a muoversi, molto più spesso è una somma di fattori climatici, ambientali, economici, personali, politici e molto altro. 

Ne segue che non c’è nemmeno una chiara direzione nella quale le leggi internazionali si stanno indirizzando o che possano seguire. Per chi si sposta a causa di un conflitto esiste la Convenzione di Ginevra sui Rifugiati del 1951, nata all’indomani della Seconda Guerra mondiale per gestire gli spostamenti delle popolazioni soprattutto europee colpite dal conflitto. C’è la possibilità che ci si muova sullo stesso solco modificando la Convenzione per accogliere la crisi climatica come uno dei fattori che danno accesso al programma delle Nazioni Unite? Fanny Thornton è scettica, perché “toccare la Convenzione è molto delicato”. Quello che è più probabile è che “nei prossimi anni vedremo crescere degli accordi bilaterali tra paesi su questo tema”. Come è già parzialmente successo tra Australia e alcuni paesi insulari del Pacifico, tra i più esposti all’innalzamento dei livelli dei mari.

Non è facile prevedere come si evolveranno questi scenari. Chi gestisce le politiche migratorie dei paesi di arrivo, come confermatoci da Thornton, sarà sempre interessato a provare a contenere i numeri. Lo testimonia anche Juergen Voegele, vice presidente per lo Sviluppo Sostenibile della Banca Mondiale che nell’introduzione della più recente edizione del Groundswell Report, scrive che “non tutte le migrazioni possono essere prevenute”. Ecco, avere una visione della migrazione climatica, e delle migrazione in generale, che non si appiattisca esclusivamente sui numeri è forse il primo passo per provare a gestire un fenomeno senza averlo davvero capito.

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