SCIENZA E RICERCA
L’impatto ambientale nascosto del commercio di piante ornamentali

Rose, tulipani, orchidee, cactus o piante tropicali: chi non ha mai comprato fiori o piante non autoctone? Ma chi, nel farlo, si è domandato da dove effettivamente provenissero – dove fossero state coltivate e che viaggio avessero compiuto prima di finire sullo scaffale del fioraio, del supermercato o del grande magazzino da cui li abbiamo acquistati?
Si è posto questa domanda un gruppo di ricercatori britannici e olandesi, che, in un articolo pubblicato sulla rivista scientifica BioScience, ha reperito i (pochi) dati pubblicamente disponibili sul commercio internazionale di piante ornamentali per valutarne l’impatto ambientale, sociale e sulla biodiversità.
Una ragnatela globale di scambi
Innanzitutto bisogna comprendere l’estensione di questo mercato, che negli ultimi decenni è cresciuto moltissimo a livello economico e ha raggiunto una scala autenticamente globale. Le direzioni e il volume degli scambi varia molto velocemente, seguendo fattori come le mode e le preferenze dei consumatori, i cambiamenti geopolitici e le variazioni economiche. Una fotografia degli anni più recenti mostra che i fiori recisi vengono esportati principalmente dal Sud America e da alcuni Paesi dell’Africa quasi esclusivamente verso il Nord America e l’Europa; per quanto riguarda i bulbi, il primato assoluto nell’export è detenuto dall’Olanda, mentre il fogliame ornamentale ha un mercato più limitato, con alcune rotte prevalenti (dal Canada agli Stati Uniti, dall’Olanda al Regno Unito, dalla Cina al Giappone).
Il commercio di piante ornamentali è sfuggente per diverse ragioni: innanzitutto, come abbiamo detto, è influenzato da logiche e motivazioni particolarmente variabili, che rendono il suo monitoraggio e la sua regolamentazione più difficile rispetto ad altri mercati. Inoltre, proprio questa difficoltà di regolamentazione è stata una delle spinte alla globalizzazione del commercio in questo settore: come spiegano gli autori della ricerca, questo commercio si è “internazionalizzato” per ragioni come «la specializzazione geografica [di alcune coltivazioni] legata alla disponibilità di risorse naturali, la produzione di beni specifici a un costo ridotto (ad esempio, per via del basso costo della produzione o della manodopera), o la legislazione poco stringente dal punto di vista ambientale nella nazione di produzione».
Il tipo di pianta scambiato e il modo in cui le rotte commerciali si canalizzano e si modificano nel tempo sono questioni rilevanti non soltanto dal punto di vista economico, ma hanno impatti profondi e variegati anche sul piano ambientale e sociale tanto nei paesi produttori ed esportatori, quanto nei paesi importatori. Tutte le fasi del commercio di piante ornamentali – la produzione, la raccolta, il trasporto, la conservazione, e infine lo smaltimento – hanno dei costi evidenti e dei costi nascosti per l’ambiente e per le persone che, direttamente o indirettamente, hanno a che fare con questo settore commerciale.
L’impatto ambientale della produzione di piante e fiori
Le piante ornamentali esotiche, che tanto amiamo in Europa e in Nord America (nel 2022, Stati Uniti, Germania e Olanda erano i primi tre importatori di piante ornamentali a livello mondiale), si procurano in due modi: attraverso la coltivazione o attraverso la raccolta di esemplari selvatici. Per quanto riguarda la raccolta in natura, sebbene esistano strategie per mantenere questa pratica a un livello sostenibile per l’ambiente, non è difficile immaginare quanto questa possa influire negativamente sugli ecosistemi in cui le piante vengono raccolte. Inoltre, gran parte delle piante raccolte in natura entra nella filiera del commercio illegale, che si esplica sia a livello locale che su scala internazionale e ha impatti profondamente negativi sulla biodiversità: è noto che questa pratica ha causato estinzioni locali, di molte delle quali probabilmente non si ha notizia. Tra le piante localmente estinte a causa del prelievo in natura per motivi commerciali vi sono alcune specie di orchidea, il croco blu cileno e il tulipano di Sprenger (una specie selvatica del Ponto, in Turchia).
Anche per via delle regolamentazioni internazionali (l’accordo più importante contro il commercio illegale di specie selvatiche è la CITES, a cui aderiscono 184 Stati), oggi la maggior parte delle piante ornamentali in commercio proviene dalle coltivazioni. La coltivazione è spesso promossa come una soluzione per ridurre il prelievo insostenibile in natura: ma, oltre a non eliminare del tutto questo problema (ad esempio, esiste un florido mercato di specie rare non coltivate ma prelevate in natura, spesso illegalmente), la coltivazione genera ben altri problemi di sostenibilità.
In primo luogo, l’orticoltura contribuisce, insieme all’agricoltura, al 70% dei prelievi d’acqua dolce, e si prevede che entro il 2030 ci sarà uno scarto del 40% tra domanda e disponibilità d’acqua dolce. Questi imponenti prelievi d’acqua da falde, fiumi e laghi non sono solo causa di esaurimento delle risorse idriche, ma anche della salinizzazione dei suoli e dell’eutrofizzazione delle acque. La grande richiesta d’acqua per l’orticoltura – che, va ricordato, alimenta un mercato di beni non necessari – può inoltre confliggere con altre esigenze più essenziali, come l’agricoltura di sussistenza e il diretto accesso ad acqua pulita da parte della popolazione locale, soprattutto in paesi produttori che soffrono cronicamente (e sempre più con l’acutizzarsi del cambiamento climatico) di siccità e scarsità d’acqua. La contraddizione tra il valore economico dell’espansione della floricoltura e gli impatti, anche di lungo termine, che la produzione intensiva può lasciare dietro di sé è particolarmente evidente nei paesi in via di sviluppo interessati dal fenomeno. È il caso di molte nazioni africane, che sono anche tra i paesi più esposti agli effetti negativi del cambiamento climatico e della degradazione degli ecosistemi, dai cui servizi dipende direttamente la sussistenza di molte persone. Un’espansione troppo rapida e incontrollata della floricoltura in questi paesi potrebbe esacerbare l’insicurezza alimentare e idrica, situazioni che sono spesso all’origine di tensione sociale e conflitti.
Un altro rischio legato all’orticoltura intensiva, in particolare se praticata in paesi le cui legislazioni sono poco attente alla tutela ambientale, è l’inquinamento: non essendo destinate all’uso alimentare, la maggior parte delle colture ornamentali viene irrorata di grandi quantità di pesticidi, che si disperdono nell’ambiente, inquinando suoli e falde acquifere e diffondendosi nella catena alimentare, e i cui residui rimangono sulle stesse piante che vengono poi esportate verso i paesi industrializzati. È noto che moltissimi pesticidi sono dannosi anche per la salute umana; è dunque preoccupante sapere che, come riportano gli autori dello studio di BioScience, «201 pesticidi usati in floricoltura sono noti come “in grado di porre rischi critici per la salute umana”, e includono composti cancerogeni, prodotti che risultano fatali se inalati, sostanze che hanno ripercussioni sul sistema riproduttivo e respiratorio e che possono persino causare mutazioni».
Ci sono poi anche il trasporto e, soprattutto per le piante recise, la refrigerazione a contribuire all’impatto ambientale di questo settore commerciale: si calcola che l’impronta carbonica del commercio di fiori recisi corrisponda a circa 3 kg di anidride carbonica per fiore, e fino a 32,3 kg per bouquet.
Infine, anche l’ultima fase della vita del commercio di prodotti vegetali è problematica sul piano ambientale: soprattutto le piante recise (fiori e foglie), che durano pochissimo sugli scaffali, si trasformano rapidamente in scarti, che si accumulano in enormi quantità. Ad esempio, è stato stimato che nel solo Regno Unito, ogni anno circa 34.700 tonnellate di fiori recisi finiscono nella spazzatura – spesso in discarica.
Chi viaggia sulle piante?
L’impatto ambientale del commercio di piante non alimentari non riguarda solo i paesi esportatori, che devono sostenere il peso di una modalità di produzione intensiva e insostenibile. Anche i paesi importatori hanno da temere dagli effetti collaterali di questa filiera globale. L’importazione di piante esotiche rappresenta infatti un grave rischio per la biodiversità autoctona: le piante esotiche potrebbero risultare invasive e mettere a rischio specie ed equilibri ecosistemici locali, oppure importare malattie vegetali che potrebbero diffondersi incontrollate nel paese di arrivo.
Ma c’è un rischio ulteriore: i passeggeri clandestini che viaggiano tra le piante d’importazione. Lo studio pubblicato su BioScience ha studiato le informazioni disponibili sulle specie aliene animali e vegetali ritrovate in carichi di fiori recisi o piante esotiche, evidenziando come all’aumentare del volume di piante esotiche importate in Europa sia aumentato anche il numero di “contaminanti” – solitamente insetti, ma anche altre specie – che sono importati insieme alle piante, nascosti nei loro apparati radicali, nel terreno, oppure sulle piante stesse.
Il tasso d’importazione accidentale di specie non autoctone e in alcuni casi invasive è aumentato negli ultimi anni, con un pesante costo per l’agricoltura, per i disturbi arrecati agli umani e per i danni diretti e indiretti alla biodiversità. In molti casi, inoltre, «le specie invasive si sono rivelate impossibili da eradicare, e si sono dovuti approntare programmi di controllo costante, che sono difficili da finanziare e da mantenere, soprattutto se l’impatto principale è sulla biodiversità e non sulle attività economiche».
Ridurre i rischi
La rapidità con cui il mercato di fiori e piante esotiche si è ampliato e la velocità a cui cambia la geografia globale di questo mercato devono spingere sia i paesi produttori sia gli importatori a porre maggiore attenzione ai rischi ambientali e sociali che possono derivare da questo commercio. In primo luogo, suggeriscono i ricercatori, i paesi importatori dovrebbero monitorare attentamente i nuovi mercati per assicurarsi che questi crescano in modo sostenibile, così da ridurre i rischi di biosicurezza e i costi ambientali. Allo stesso tempo, anche i paesi esportatori devono considerare con attenzione i rischi che pongono sulle proprie risorse ambientali e sul benessere della propria popolazione.
Per contenere il rischio di importazione accidentale di specie aliene e potenzialmente invasive – rischio particolarmente alto, secondo gli studiosi –, si potrebbero ad esempio introdurre dei “passaporti delle piante” o dei certificati fitosanitari, e regolamentare in modo chiaro i tipi di substrato che possono essere esportati. Tuttavia, si legge nell’articolo scientifico, «nonostante i protocolli di biosicurezza siano migliorati, il numero di contaminanti delle piante rimane alto», e valutare il rischio con precisione rimane intrinsecamente difficile a causa dell’incertezza tassonomica.
Parallelamente, sarebbe necessario implementare standard e certificazioni internazionali per ridurre il sovrasfruttamento dei suoli e dei bacini idrici e l’uso smodato di pesticidi che, ad oggi, caratterizza le colture ornamentali soprattutto nei paesi in via di sviluppo.
Sono tutte misure ancora di là da venire: il primo passo nella giusta direzione, sostengono i ricercatori, è potenziare proprio la ricerca, estendere il monitoraggio delle specie aliene e introdurre standard di sostenibilità più severi. Solo così si potrà comprendere la reale estensione dell’impatto ambientale e sociale di questo mercato, e regolamentarlo di conseguenza.