CULTURA

"Nova": intervista a Fabio Bacà

Non c’è società quanto quella contemporanea occidentale più distante – o che tende ad allontanarsi – dal dare seguito alle reazioni impulsive. Dominiamo la paura, moderiamo la rabbia, sublimiamo le esigenze fisiologiche con soddisfacimenti mentali, o virtuali, tanto che possono essere considerati rivelatori del nostro essere ancorati alla terra momenti che una volta erano considerati affatto speciali (la gravidanza e il parto sono uno di questi, per esempio, nella vita delle donne) e in questi oggi, invece, ci appare, in tutta la sua fiera potenza, il lato animale del nostro essere mammiferi evoluti. Tutto ciò è probabilmente è tanto più vero quanto più il background culturale è elevato: come dicevano certi vecchi, a studiar troppo si diventa “tutta testa”.

Rappresentante di questo fenomeno è il protagonista del secondo romanzo di Fabiò Bacà (Nova, Adelphi 2021) Davide, neurochirurgo di media fama, per il quale, per forza di cose, tutto ha una spiegazione scientifica: anche quelle reazioni che attribuiamo al “carattere”, per lui sono l’esito di complesse reazioni chimiche. E nonostante la sua evoluta chiave di lettura per interpretare l’agire umano, Davide soffre di una frustrazione diffusa dovuta al fatto che si scopre ogni volta incapace di reagire alle aggressioni verbali o fisiche che vengono perpetrate a lui o ai suoi cari: un vicino molesto, un automobilista che provoca, un capo che lo sodomizza psicologicamente.

Come può essere risolto un problema del genere? Non certo ricorrendo alla violenza, pare ovvio, eppure quante volte, soprattutto alle persone più miti, ha sfiorato la mente il pensiero che il vero – unico – modo per risolvere le questioni non passi attraverso il fine ragionamento ma sia qualcosa di ferino?

Fabio Bacà, come nel suo precedente Benevolenza cosmica, esordio con cui tanto successo ha avuto, compie cioè – di nuovo – un’operazione disarmante: prova a chiedersi “cosa sarebbe se” e sceglie – di nuovo – per la condizione espressa dal se qualcosa di paradossale: lì si domandava cosa sarebbe successo a essere perseguitati dalla fortuna, qui si chiede cosa possa accadere a un uomo mite e studiato se scegliesse di risolvere le questioni con la violenza.

“La violenza era ripugnante. Eppure era inevitabile. Era inconcepibile. Ma era produttiva. Era vile. Ma ti faceva sentire vivo. Era disumana. Eppure profondamente, indissolubilmente umana. Come avrebbe risolto questo gigantesco koan?”

Il koan è infatti un’aporia insolubile, come spiega a Davide Diego, un maestro zen incontrato per caso, che lo instrada proprio a questo tipo di scelta, con meravigliato orrore della moglie Barbara, logopedista vegana la cui preoccupazione massima fino ad allora era stata occuparsi del figlio adolescente Tommaso e far fronte alle rughe incipienti, trovandosi ormai alla soglia dei quarant’anni. E Diego è chiaro fin da subito, a scanso di equivoci: “Lo Zen non serve a fare di te un filantropo con un perenne sorriso da idiota”.

La voce di Fabio Bacà è, in questa commistione di ironia nera e disarmante analisi dei meccanismi umani, unica. Con una lingua forbita, lucidata e molto consapevole, con velata e voluta allusione ad altri grandi autori che su temi affini si sono mossi (per la violenza dagli italiani cannibali a Palahniuk, ma nella figura del neurochirurgo aggredito non si può non ritrovare l’eco del protagonista di Sabato di McEwan) dice di continuo al lettore che il re è nudo, è lo è da molto tempo. Solo che la risposta al koan, se mai c’è, non è certo quella che appare. Bacà provoca, sta al lettore fare di questa provocazione un inestimabile tesoro.

Lo abbiamo intervistato.

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