CULTURA

Rileggiamo: L’ora di greco di Han Kang

L’autrice che quest’anno ha vinto il Nobel per la letteratura, la sudcoreana Han Kang, classe 1970 e già Premio Pulitzer con La vegetariana, è una scrittrice i cui libri, diversamente da quanto accade il più delle volte all’annuncio del Nobel (tranne due anni fa quando vinse Annie Ernaux), sono già parecchio conosciuti dalla massa critica dei lettori. Se quasi tutti però hanno intercettato La vegetariana dopo la vittoria del Pulitzer (è uscito invece in patria nel 2007), non lo stesso è vero per L’ora di greco, dato alle stampe in Corea nel 2011 e pubblicato da Adelphi l’anno scorso.

È un romanzo che indaga l’eccesso, come l’altro, ma l’esito della struttura e della lingua di Han Kang sono quelli di produrre un testo lieve, cerebrale ed emotivo insieme.

C’è una spada tra di noi” è la prima affermazione che si legge, attribuita a Borges e al suo desiderio che proprio queste parole corredino la sua lapide. Secondo la mitologia nordica la prima notte in cui un uomo e una donna giacciono insieme una spada va posta tra di loro fino all’alba, e quella spada, per Borges, rappresenterebbe la cecità di cui soffriva.

Anche il protagonista maschile del romanzo, voce narrante in prima persona, il professore di greco cui allude quell’ora del titolo, sta lentamente e inesorabilmente perdendo la vista. Già lo sa, ma vive come non dovesse realmente accadere: rimanda a imparare il braille, insegna fino all’ultimo quella lingua morta che – di contro – è capace di vita molto più tante di quelle in uso.

“La gente pensa che, quando si perde la vista, la prima cosa che succede è che si diventi maggiormente sensibili ai suoni, ma non è vero: prima di qualsiasi altra cosa, si inizia a percepire di più lo scorrere del tempo. Sono sempre più sopraffatto dalla sensazione che il tempo attraversi costantemente il mio corpo come il lento, inesorabile fluire di un’enorme massa di materia”.

Tra i suoi studenti c’è una donna, di cui si racconta in terza persona, che invece all’improvviso ha perso l’uso della parola per la seconda volta nella sua vita.

“Alla fine, un inverno, era arrivata quella cosa. Aveva appena compiuto sedici anni quando, di colpo, il linguaggio che l’aveva imprigionata e torturata come un vestito intessuto di migliaia di spilli era sparito. Il suo udito funzionava ancora, ma un silenzio simile a uno strato spesso e compatto di aria aveva ostruito lo spazio tra la chiocciola dell’orecchio e il cervello. Avviluppato in quel vuoto sordo, il ricordo di come usare le labbra e la lingua per pronunciare le parole, o la mano per stringere una matita, si era fatto inaccessibile. Non pensava più in parole. Agiva senza parole, comprendeva senza parole. Il suo corpo era assediato dentro e fuori da un silenzio che risucchiava lo scorrere del tempo, un silenzio ovattato come prima di imparare a parlare – anzi, come prima di venire al mondo”.

C’è una spada tra di loro. Lei non può parlare, lui si appresta a non poter più vedere e quindi a non poter leggere il labiale o qualsiasi messaggio scritto né tantomeno a usare la lingua dei segni. S’avvicina l’incomunicabilità più nera. E il loro modo di esperire spazio, tempo, lingua e suono si sposta agli antipodi. Il corpo si fa più persistente per lui, svanisce per lei, così come le ore ingigantiscono e di contro svaniscono.

Ma chi sono l’uno per l’altra? Nessuno. Solo lui, l’insegnante. Lei, l’allieva. Eppure c’è ancora qualcosa di possibile, e di sublime tra loro: il greco.

“Una lingua fredda e dura come una colonna di ghiaccio. Una lingua di un’autosufficienza estrema, in cui un vocabolo non ha bisogno di combinarsi con nessun altro per essere usato. Una lingua che fa aprire bocca solo dopo che il rapporto di causa-effetto e l’atteggiamento siano stati irrevocabilmente decisi”.

Han Kang porta sulla pagina le solitudini di due esseri umani traditi dall’esistenza che paiono inconciliabili. Ci si domanda se mai s’intersecheranno quelle due parallele, non contando che le geometrie possono essere non euclidee. E infatti professore e alunna si incontrano in un’inversione di ruoli che porta lei a soccorrere lui. E nel perfetto silenzio di chi può solo ascoltare e nella cecità di chi invece ha la capacità di rievocare con le parole, mettono in comune la vita.

“Quel giorno cosa aveva scritto in greco sul suo quaderno?” chiede il professore.

Ma lei non può parlare e allora interviene quella terza persona che di lei sa: “[…] Sa che la perdita del linguaggio non è stata causata da alcun evento specifico. Una lingua sfilacciata nel corso di migliaia di anni da un numero incalcolabile di parlanti e scriventi. Una lingua che lei stessa, parlando e scrivendo, aveva sfilacciato tutta la vita. Ogni volta che stava per pronunciare una frase, ne sentiva battere il cuore antico. Un cuore rattoppato, prosciugato, inespressivo. E più lo sentiva, più stringeva le parole tra le dita. Finché a un certo punto la presa si era allentata. I cocci spuntati erano caduti ai suoi piedi. Gli ingranaggi, che prima giravano incastrandosi alla perfezione, si erano fermati. Una parte di lei, logorata dalla lunga e dura resistenza, era venuta via come carne, come tofu tagliato con un cucchiaio.”

Han Kang in una prosa in sottrazione che accosta lirismo a minimalismo, razionalità a istinto, fa qualcosa d’incredibile. Unisce gli opposti, piana i paradossi, scrive per singulti, fa sfociare la prosa in poesia, incastra corpo voce e pensiero. Allenta il desiderio d’ordine di chi legge. Rintraccia il miracolo della vita, chiamando al presente la potenza universale del passato.

Ogni volta che stava per pronunciare una frase, ne sentiva battere il cuore antico Han Kang

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