CULTURA
Sullo scaffale: Portofino blues di Valerio Aiolli vince il Premio Cortina 2025

Villa Altachiara a Portofino. Pubblico dominio
“Non c’è mai un vero motivo per scrivere una storia. L’unico motivo è che ci siamo messi a scrivere quella storia per scoprire qualcosa che esisterà solo se riusciremo a scriverla” chiosa Valerio Aiolli nel capitolo di apertura del suo nuovo libro, Portofino blues (Voland, 2025, neovincitore del Premio Cortina) quasi a voler spiegare a se stesso, oltre che a noi che leggiamo, l’ontologia di quello che verrà.
Nelle pagine successive prende infatti forma uno di quei libri che non possono avere etichetta, a cavallo tra fiction e ricostruzione di vita vissuta, in cui il talento mimetico del romanziere è l’unica arma per affrontare l’arduo compito: narrare un caso di cronaca nera.
Una donna è scomparsa, il suo corpo viene ritrovato dopo diverse settimane in mare, quasi irriconoscibile; iniziano le indagini per capire com’è successo e se c’è un responsabile. In ballo diversi miliardi di lire. Questa donna, però, è nientemeno che l’ex moglie di un magnate, riaccompagnatasi a un uomo più giovane e nuovamente (o contemporaneamente?) a un bel messicano con cui ha intenzione di “fare la fuitina” nella patria di lui, dove già era stata in fuga con il precedente compagno accusato dalla legge italiana di ricilaggio e ricettazione. Non è una signorina nessuno, ma è nota al bel mondo, frequenta politici e imprenditori, e le televisioni accendono i fari sulla sua morte.
Il caso mediatico della contessa Francesca Vacca Agusta farà scuola per i successivi, da Cogne a Garlasco.
Aiolli è quindi ambiziosissimo nella sua intenzione, perché – si sa – gli scrittori vogliono mettere sulla pagina un romanzo, cioè un’opera letteraria pura, non fare giornalismo. E che le vicende siano, in altra forma e in altri tempi, note al lettore non semplifica il compito. Tutt’altro.
Allora, a maggior ragione, il romanziere cerca la voce, che qui è multipla: conosciamo la storia attraverso gli occhi di Teresa la domestica; di Susanna la commessa amica del cuore, così simile a Francesca vent’anni prima; di Tirso, l’amante messicano che prima ancora era il “sorvegliante” della sua felicità; di Maurizio, il compagno con cui la storia oramai è tiepida; di Corradino Agusta, l’ex marito che aveva impiantato un impero; di Rocky il figlio di primo letto, legittimo erede, insieme a lei, della fortuna degli Agusta e di Francesca stessa, inevitabilmente.
Il racconto è appoggiato: Aiolli canta in terza con rare e opportune incursioni in prima persona; la narrazione alterna, su due linee parallele, il “dentro” e il “fuori” che sono contemporaneamente il prima – quando la storia si svolge mentre Francesca è in vita, e poi rotola verso il tragico finale di cui non sono noti i contorni – e il dopo, cioè quando il mare ha restituito il cadavere e la vicenda investigativa ha inizio.
Ma Aiolli non racconta di interrogatori e ricostruzioni, quanto di anime.
“I sentimenti tra le persone si fanno a volte invisibili, ma non è detto che perdano la loro persistenza” e così il romanziere scava. Immagina. Com-patisce.
“Mentre si avvicinava agli scogli piatti dov’era il punto di risalita, aveva percepito in modo assoluto e indimenticabile la terribile precarietà dell’esistenza. Non solo la sua, quella di tutte le cose che esistevano”.
La vicenda di quei personaggi, eco e maschera – non importa se fedele – di persone realmente esistite, si fa paradigma di meccanismi umani universali, indipendentemente dai fatti specifici e dai contesti. Il bisogno d’amore, l’ambizione, la depressione, l’invidia, il successo, il desiderio di rivalsa sono quanto di più umano abbiamo. Sullo sfondo di un Italia che, per esempio, ai tempi dell’incontro tra Francesca e il conte Agusta, “faceva avanti e indietro con l’idea di trasformarsi in un luogo dove fosse possibile rifarsi una vita, oscillando attorno a un referendum, quello sul divorzio, che invece di dividerla la unì”, e che poi si modifica ancora, con l’andare dei tempi, come sappiamo bene, per esserci stati – vivi – mentre le cose succedevano, anche noi.
C’è un personaggio, poi, che sovrasta per imperio tutti gli altri pur restando silente. Ed è Villa Altachiara a Portofino (costruita dal suo primo proprietario a fine Ottocento a somiglianza della dimora signorile inglese dove è stata girata la serie Downton Abbey), dove Francesca vive e dove inizia a morire, restituita nei suoi squarci di dolorosa bellezza, di annoiato tepore, di inutile sfarzo, che diviene teatro di una tragedia ancora prima che il fatto si compia, ma che anche sorveglia, non vista: lei è l’unica che, muta, sa.
La storia che Aiolli ci fa conoscere è quella di una fuga, un viaggio a Samarcanda senza fine. Per chi ha vissuto con misura e per chi ha ecceduto, per chi ha sofferto e chi è riuscito quasi sempre a inebriarsi a sufficienza, per chi ha mentito e chi è stato fedele, per chi voleva restare e chi andare. Per chi è morto e chi è sopravvissuto.
“ Non c’è mai un vero motivo per scrivere una storia. L’unico motivo è che ci siamo messi a scrivere quella storia per scoprire qualcosa che esisterà solo se riusciremo a scriverla Valerio Aiolli