Il cammino: un thriller che ci riporta alla guerra nei Balcani

Può un romanzo di suspense farci venir voglia di tornare a sfogliare le pagine troppo spesso dimenticate della storia europea? È quello che accade con Il cammino di Anya Niewierra (2025, Neri Pozza), che intreccia il ritmo incalzante del thriller a una vicenda privata segnata dalla guerra nei Balcani. A volte basta una trama coinvolgente per riattivare l’interesse per eventi che forse abbiamo vissuto da lontano, ma che alcuni di noi non hanno mai davvero compreso nella loro drammaticità. Per parte di una generazione, parole come “pulizia etnica”, “genocidio”, “stupri di guerra”, “Srebrenica” risuonavano la sera a cena, durante i telegiornali: l’idea che qualcosa di terribile stesse succedendo arrivava, ma per i più giovani era come attutita dalla quotidianità.
Ci sono romanzi che parlano direttamente della guerra restando fermi nei bunker, tra le mine antiuomo o nelle trincee. Altri, come Il cammino, la raccontano con un movimento più tortuoso, quasi per rifrazione, attraverso una vicenda individuale che riemerge lentamente, permettendo al lettore di mettersi nei panni di personaggi, fittizi ma profondamente credibili, che hanno attraversato la storia, alcuni senza mai riuscire a superare il dramma di cui sono stati protagonisti, né le loro colpe.
Thriller psicologico o racconto storico?
Il cammino in apparenza, è un thriller psicologico: Emil Jukić, ex profugo bosniaco, viene ritrovato morto lungo il Cammino di Santiago: si è suicidato tagliandosi la gola. Decisa a capire chi fosse davvero suo marito e cosa lo abbia spinto a un suicidio di cui non è pienamente certa, la moglie Lotte Bonnet intraprende il Cammino di Santiago ripercorrendo le stesse identiche tappe, soggiornando negli stessi ostelli, cercando le tracce di un passato di cui non era a conoscenza, ma che era in parte emerso dopo la morte di Emil.
Lotte non sa che così facendo si è messa in grave pericolo, e attorno a lei cominciano a succedere strani incidenti: quando scopre che il marito le ha mentito per anni, perché il vero Emil era morto durante la guerra nei Balcani nel 1995, alcune persone intorno la mettono in guardia, ma lei non resiste e vuole avvicinarsi alla fiamma della verità anche a prezzo di bruciarsi.
Le differenze etniche prima del conflitto
In parallelo, un uomo racconta la storia di tre amici d’infanzia, un bosniaco, un serbo e un croato, che avevano legami fortissimi prima che la guerra li lacerasse.
Parla di giochi di bambini, di un’infanzia felice e libera, anche se sono cresciuti in un paese sotto la dittatura di Tito, perché nessuno era strategicamente interessato al luogo in cui vivevano.
“ In seguito mi sono chiesto come era possibile che da bambini non vedessimo il lato crudele della guerra […] Forse il nostro entusiasmo per giocare alla guerra è il preludio dei massacri che possono avvenire durante la vita adulta
I personaggi hanno vissuto la prima parte della loro vita in un limbo in cui le differenze etniche tra di loro non avevano nessuna importanza.
“ A quei tempi le nostre differenze etniche per noi erano come fare il tifo per una squadra di calcio diversa, cioè una cosa non davvero importante
Eppure qualcuno continua a ricordare, e a nutrirsi di quell’odio che farà irrompere la violenza, distruggendo vite e rapporti di amicizia: i nonni. Un altro elemento di grande forza nel romanzo, infatti, riguarda il contrasto tra generazioni diverse. I genitori dei protagonisti hanno ereditato un mondo segnato dal passato, ma vivono in scenari europei “post-etnici”, spesso lontani dai conflitti balcanici precedenti, e così i loro figli. I nonni, invece, rappresentano il contatto diretto con i traumi della dissoluzione jugoslava, e in certi casi hanno coltivato un terreno fertile per il razzismo che negli anni Novanta ha portato a conseguenze inaudite.
“ Ricordo ancora che nell’estate del 1989 dopo un discorso razzista del serbo Slobodan Milošević camminavo per le strade di Sarajevo cercando di individuare le differenze etniche tra tutte quelle persone. Io non le vedevo, Milošević invece sì
La generazione dei genitori è distante dal conflitto ma ne subisce l’eredità invisibile, che scorre sotto la vita quotidiana senza essere mai espressa, fino a quando qualcuno decide di approfittarsene, per ideologia e tornaconto.
Il passato che ritorna
Un altro contrasto onnipresente nel romanzo è quello tra la spensieratezza dell’infanzia e la brutalità della guerra. Emil e i suoi compagni, come dicevamo, all’inizio non conoscevano i confini, non sapevano di vivere in un paese in frantumi che li voleva nemici per motivi che non potevano comprendere. Fino a quando la guerra non scoppia, non ci sono scene madri, ma solo avvisaglie: in questo senso, Il cammino è un romanzo che lavora sulla rimozione, più che sul trauma spettacolare, e questo rende il dolore ancora più acuto, perché viene il dubbio che l’orrore, quello personale se non quello collettivo, si poteva fermare, ma i protagonisti non se ne sono accorti in tempo.
Il romanzo ci racconta come l’amicizia infantile, apparentemente innocente, possa diventare il terreno più crudele quando le etnie diventano marchi, e la guerra impone di scegliere da che parte stare: la tragedia di Srebrenica, la pulizia etnica, i campi di prigionia, tutto entra nel romanzo non come sfondo didascalico, ma come memoria incarnata nei gesti e nei silenzi. Emil ha costruito una nuova vita, ha rubato un nome, si è rifatto una famiglia, ma non ha mai smesso di portarsi dietro il peso di ciò che è successo. Eppure il suo suicidio è un atto finale che non può spiegarsi con depressione e senso di colpa: dietro c’è qualcosa di diverso, un coraggio che stona apparentemente con il resto del racconto, e che ha a che fare con la consapevolezza che il passato, prima o poi, chiede di essere ascoltato.
Il corpo che cammina, la memoria che riemerge
Nel corso del viaggio di Lotte, il romanzo si trasforma. Non cambia genere (il mistero resta, anzi si infittisce) ma cambia ritmo, prospettiva. Come accade spesso nei pellegrinaggi, anche qui il tragitto, da sfondo narrativo, diventa un dispositivo trasformativo. E nel caso di Lotte, la trasformazione non ha nulla di spirituale o mistico, è piuttosto una lotta contro l’ottundimento. Ogni passo è un atto di volontà, ogni chilometro divorato sotto il sole è un’occasione per disinnescare la rimozione. Camminare diventa l’unico modo per sopportare il peso del passato, e insieme per prenderne distanza.
Niewierra descrive il Cammino con attenzione ai dettagli, ma senza mai cadere nel pittoresco: ci sono gli ostelli spartani, i pasti condivisi, i dolori alle caviglie, le bolle sotto i piedi, ma soprattutto c’è il flusso umano, con i volti incontrati e i silenzi condivisi, con personaggi secondari che risultano sfaccettati, spesso ambigui, e mai ridotti a semplici archetipi, ed è proprio questa ambivalenza che rende il romanzo potente.
Man mano che si procede nella lettura si arriva a comprendere che i singoli, pur essendosi macchiati di crimini efferati, non sono (o non sono sempre stati) dei mostri, ma semplicemente non sono stati in grado di opporsi a un sistema che utilizzava l’odio per accrescere il potere di pochi.
Camminare, in questo romanzo, non è solo muoversi: è riconoscere che la verità (storica, familiare, personale) bisogna guadagnarsela con la fatica, con la lentezza, con il rischio di sbagliare sentiero ed essere schiacciati da una frana, o avvelenati in un bistrot perché si è andati troppo vicino alla fiamma della conoscenza.
Il paesaggio attraversato, brullo, assolato, talvolta ostile, accompagna questo percorso di presa di coscienza. Il corpo di Lotte si modifica, si indurisce, si affatica, e con lui si modifica anche il suo modo di percepire il mondo: meno controllato, meno analitico, più aperto alla possibilità che qualcosa le sfugga. Se all’inizio del romanzo Lotte è una donna che domina il proprio presente (ha un ruolo dirigenziale, una reputazione, dei figli), nel corso del Cammino diventa una persona che accetta di essere attraversata dalle emozioni, dai ricordi, ma anche dalle storie degli altri.
Il thriller come macchina della memoria
Se Il cammino fosse solo il racconto di un'identità inquieta e di un pellegrinaggio trasformativo, sarebbe già un buon romanzo, ma Anya Niewierra usa la struttura del thriller e del romanzo di formazione per far scattare l’interesse su una parte della storia contemporanea che forse non è stata sufficientemente approfondita. L’indagine personale di Lotte, che si complica con scoperte su documenti, testimonianze e false identità, ha una doppia funzione narrativa: da un lato serve a tenere alta la tensione, a spingere il lettore a voltare pagina, ma dall’altro diventa uno strumento per riportare in superficie una delle pagine più rimosse della storia europea recente.
È significativo che Lotte scopra chi era davvero il marito attraverso una serie di indizi: fotografie, lettere, documenti, frasi scritte sui libri dei pellegrini. Il thriller, in questo senso, è una metafora della ricerca storica, perché la verità non viene rivelata da un singolo testimone, ma ricostruita pezzo per pezzo, tra omissioni, bugie e inganni.
Una guerra che si perde nel passato (e non dovrebbe)
Il romanzo affronta con lucidità il tema delle identità spezzate dalla guerra, mentre Lotte, nel processo di ricostruzione, è costretta a confrontarsi con l’ambivalenza del marito, che passa dall’essere vittima a carnefice. Chi era davvero l’uomo che ha amato?
Il cammino è anche un romanzo civile, ma un romanzo civile che non si appoggia su proclami o tesi militanti, ma fa qualcosa di più sottile: ci costringe a empatizzare con chi quella guerra l’ha vissuta senza capirla a fondo, da dentro, con gli occhi di un ragazzo, che forse non sapeva cosa stava facendo, da chi veniva manovrato, ma che si è macchiato di colpe che forse potranno essere perdonate dalle persone vicine, ma dalla Storia no.
E poi Il cammino ci obbliga a fare i conti con la nostra posizione: molti lettori ricorderanno la guerra dei Balcani come un rumore di fondo, un evento lontano. Le stesse persone che si interrogano su come sia stato possibile l’Olocausto non si sono fermate neanche per un momento a cercare di comprendere come la situazione nei Balcani sia sfuggita di mano, anche all’Europa.
Niewierra usa la suspense e i colpi di scena per riattivare la memoria collettiva, e lo fa con rigore narrativo, ma anche con delicatezza. Non c'è voyeurismo, non c’è abuso emotivo: anche le scene più crude sono scritte con misura, e il dolore non viene mai spettacolarizzato. È semplicemente lì, a ricordarci che la guerra non è finita solo perché è sparita dai titoli di giornale, perché quello che è successo prende le mosse da meccanismi che si ripetono nel corso della storia, e negli ultimi anni ne siamo testimoni, stavolta senza la scusa di essere stati troppo piccoli per comprendere.