
Negli ultimi mesi, una battuta (amara) che si sente sempre più spesso relativamente alle azioni del presidente Donald Trump è che non dovrebbe utilizzare certi romanzi distopici come manuali di istruzioni, per esempio Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood.
Potrebbe sembrare che ci si scherzi sopra, ma in realtà i segnali che la democrazia, non solo in America, stia cominciando a tremare ci sono.
La domanda che si pone un articolo su The Conversation è se non li stiamo per caso sottovalutando. Mentre la stampa viene screditata o ricattata, il potere si concentra nelle mani di pochi e i meccanismi di controllo si indeboliscono, una democrazia può cambiare forma senza che le persone se ne accorgano, non da un giorno all’altro, ma gradualmente, un decreto alla volta, una rinuncia silenziosa alla volta.
Ma perché può succedere? Perché, anche quando ci sono segnali chiari, i cosiddetti red flag, le “bandierine rosse” — tante persone non li vedono, o li ignorano? E, soprattutto, è vero che i segnali sono sottostimati o magari è il contrario?
Il paradosso della democrazia
Per certi versi sì, esiste il rischio concreto di sottovalutare i segnali, e questo proprio perché nei paesi con una lunga storia democratica si è cominciato a darla per scontata
Le persone che vivono in società democratiche stabili tendono a sviluppare la convinzione che il sistema reggerà sempre. È una fiducia che non viene da un ragionamento razionale, ma da un’abitudine, perché in fondo le regole del gioco sono sempre state quelle: libertà di parola, pluralismo, separazione dei poteri. E se qualcosa non funziona, ci penseranno i tribunali, la stampa, le elezioni.
Questa sicurezza, spiegano i ricercatori che firmano l’articolo su The Conversation, è una conquista preziosa, ma può diventare anche una trappola, perché ci abitua a non vedere il rischio. E, nel momento in cui certi segnali si presentano davvero, il nostro cervello tende a razionalizzarli, ridimensionarli, ignorarli.
I bias non vanno in una sola direzione
Secondo Michele Roccato, professore ordinario di psicologia sociale all’università di Torino e noto per le sue ricerche su autoritarismo e insicurezza sociale, situazione è più sfaccettata, e se da una parte c’è chi sottovaluta il pericolo, dall’altra c’è chi lo sopravvaluta: “Ci sono – spiega Roccato – oltre settant’anni di ricerche che mostrano come tutti noi, nessuno escluso, siamo soggetti a bias cognitivi, scorciatoie mentali, percezioni distorte che ci aiutano a sopravvivere in un mondo molto complesso, ma che possono anche renderci ciechi o al contrario eccessivamente allarmati”.
Non esistono i razionali da una parte e gli irrazionali dall’altra, insomma, esistono esseri umani che cercano protezione, controllo, stabilità.
La memoria storica che sta svanendo
Uno dei motivi per cui ci potrebbe essere il rischio di una deriva autoritaria è la perdita di quel patrimonio che è la memoria collettiva. Le dittature europee sono cadute da oltre 80 anni e in alcuni paesi, come gli Stati Uniti, una dittatura non c’è mai stata, e questo ha un forte impatto sulla capacità di riconoscere i segnali di rischio.
Quelle esperienze traumatiche, per quanto nessuno si auguri di riviverle, per molto tempo ci hanno protetto: come un vaccino, hanno prodotto degli anticorpi sociali e culturali per riconoscere i segnali di allarme, ma, come accade con i vaccini, questi anticorpi con il tempo svaniscono. “Per decenni – precisa Roccato – in Europa occidentale ha prevalso una sorta di pregiudiziale pro democratica: una convinzione diffusa e condivisa che la democrazia non fosse solo il miglior sistema possibile, ma anche l’unico moralmente accettabile. Oggi, soprattutto nelle nuove generazioni, questa convinzione è meno scontata”.
Roccato ricorda una delle frasi più citate di Winston Churchill
“ La democrazia è la peggior forma di governo ad eccezione di tutte le altre forme che sono state sperimentate di volta in volta Winston Churchill
Il pregiudizio di normalità
“La distanza di ottant’anni – osserva Roccato – rende facile dimenticare la seconda parte della frase di Churchill, quella che conta di più.” Quando la democrazia diventa la normalità, insomma, smette di apparire preziosa, soprattutto a chi non ha vissuto l’alternativa.
Roccato spiega che in psicologia cognitiva esiste un concetto chiamato normalcy bias, o “pregiudizio di normalità”, che ci porta a sottovalutare i pericoli durante un disastro, convinti che tutto tornerà presto com’era: succede durante un’alluvione, un terremoto, e, in forma più sottile ma altrettanto profonda, anche quando la crisi riguarda la democrazia.
Davanti a una decisione controversa, a una legge che limita la libertà di stampa o all’accentramento del potere esecutivo, tendiamo a dirci che è tutto sotto controllo, che è qualcosa di temporaneo o una semplice eccezione senza conseguenze.
Questa reazione non è frutto di ingenuità, ma di un meccanismo evolutivo: il nostro cervello preferisce non sprecare risorse preziose (come attenzione e preoccupazione) se non è strettamente necessario, e fa molta fatica a ragionare a lungo termine.
L’autoritarismo non si presenta in uniforme
Alcuni si aspettano che un autocrate si presenti gridando slogan estremi, ma nella maggior parte dei casi gli autoritarismi non si impongono più con la forza, e i leader populisti sanno come rendersi appetibili: parlano di ordine, efficienza, protezione, promettono di semplificare la democrazia, non di abolirla. Si dicono interpreti diretti della volontà popolare e in effetti in qualche modo lo sono.
Che la soddisfazione democratica stia calando, anche se non in modo drammatico, è documentato da numerose indagini: Roccato cita la European Social Survey che ci dice che nel 2002 la soddisfazione media per la democrazia nei Paesi europei era di 5.5 su 10, mentre l’ultima rilevazione, del 2023, segna un calo a 5.2. In Italia si scende ancora, sotto la soglia del 5.
Le red flag potrebbero anche piacerci
Non sono numeri catastrofici, ma dicono qualcosa: la democrazia, per non poche persone, non funziona come dovrebbe.
Il titolo del paragrafo può sembrare provocatorio, ma acquista senso se si parte da una domanda: che cosa cercano le persone quando votano per movimenti populisti o leader carismatici? “Il populismo di destra – spiega Roccato – è una risposta sbagliata a una domanda giusta: c’è una parte dell’opinione pubblica che si sente trascurata o minacciata dal mondo contemporaneo dal punto di vista economico e culturale. C’è chi si sente escluso o penalizzato dalla modernizzazione e dalla globalizzazione, chi ha perso il lavoro o teme di perderlo, chi vede svalutate le proprie competenze e poi c’è chi percepisce la scomparsa di modi di vivere e valori tradizionali, chi si sente “straniero a casa propria” in quartieri che sono cambiati rapidamente, spesso in modo visibile e radicale. Entrambe queste spinte alimentano un bisogno profondo: quello di protezione. Quando le istituzioni democratiche, soprattutto quelle mainstream, non riescono a intercettare e dare risposta a questo bisogno, e magari addirittura lo stigmatizzano, è comprensibile che le persone cerchino altrove, anche in direzioni potenzialmente pericolose”.
Il bisogno di controllo
Non c’è solo il bisogno di protezione, ma anche quello di controllo. “È un bisogno psicologico potentissimo – spiega Roccato — e quando sentiamo di aver perso il controllo, com’è successo durante la pandemia per esempio, siamo disposti ad affidarci a chiunque ci prometta di restituircelo. Non è un caso che durante la pandemia sia aumentata in molti Paesi la fiducia nelle istituzioni, anche in Italia dove tradizionalmente non era così alta. Quando sentiamo di non avere controllo diretto sulla nostra vita cerchiamo un controllo compensatorio, qualcuno che prenda decisioni per noi, e quindi potremmo sentire il desiderio di un governo tecnocratico o autoritario, guidato da esperti o da leader forti. È solo apparentemente contraddittorio: la democrazia e l’autocrazia possono rispondere allo stesso bisogno psicologico comune agli esseri umani. Se davvero vogliamo capire perché una parte della popolazione non riconosce o addirittura apprezza i segnali di una possibile regressione democratica, dobbiamo sospendere il giudizio e chiederci quali bisogni profondi li portano a non vederli o a vederli senza spaventarsene, perché solo da qui può partire un vero dialogo”.
Come ci si può tenere lontani dalla dittatura?
Una delle piste più promettenti, secondo Roccato, è l’empatia. Non bastano appelli razionali, con grafici e percentuali, perché le persone prendono decisioni in base a emozioni profonde più che a calcoli.
“Come racconta Damasio nel libro L’errore di Cartesio – aggiunge Roccato – pazienti con lesioni focali alla corteccia prefrontale ventromediale, che conservano intatte le capacità razionali ma hanno perso l'accesso alle emozioni, prendevano decisioni controproducenti o dannose, o non riuscivano proprio a prenderle. Per questo, forse, ha più effetto un racconto personale su cosa significhi vivere sotto una dittatura che una lezione di educazione civica. Bisogna far capire cosa vuol dire vivere in un sistema autoritario, nella vita concreta delle persone, non abbiamo bisogno di numeri, ma di racconti: è da qui che può nascere una nuova coscienza democratica”.
“ La ragione pura, senza l’ancoraggio delle emozioni, non è in grado di guidarci in modo efficace nel mondo reale Antonio Damasio, L’errore di Cartesio
I bias cognitivi possono colpire tutti
Molti dei nostri giudizi sono influenzati da bias cognitivi, che come dicevamo vanno in entrambi i sensi. Uno dei più noti è l’euristica della disponibilità (l’euristica è una scorciatoia mentale): se un evento ci viene facilmente in mente, lo consideriamo più probabile: se non abbiamo esperienze dirette di autoritarismo, o se la nostra rete sociale non ne parla, non riteniamo che sia un’eventualità probabile, e quindi potremmo sottostimare i segnali.
Un altro bias frequente è l’ottimismo irrealistico, cioè la tendenza a sovrastimare la probabilità che le cose vadano bene: da una parte ci aiuta a vivere senza ansia costante, ma dall’altra può portarci a sottovalutare i pericoli reali.
Viceversa Roccato ci ricorda anche il negativity bias, cioè l’ipersensibilità alle minacce, che è un meccanismo evolutivo che poteva salvare i nostri antenati: se sentivano un rumore in un cespuglio, era meglio spaventarsi per un pericolo inesistente che ignorare un pericolo reale. Chi lo faceva, pensando che nel cespuglio ci fosse un coniglio e non un serpente, rischiava di morire e di non trasmettere il patrimonio genetico: nulla da stupirsi se come specie siamo portati a sovrastimare i rischi.
“In entrambi i casi – sottolinea Roccato – non esiste una parte razionale e una irrazionale della popolazione: tutti tendiamo a costruirci una visione del mondo coerente con le nostre esperienze, i nostri bisogni e le nostre reti sociali e questo vale sia offline che online”.
I social amplificano i bias
I social sono ambienti progettati per confermare ciò che già crediamo, quindi alimentano i bias delle persone. Meccanismi come l’esposizione selettiva portano alla costruzione di realtà separate. “Nella vita reale – precisa Roccato – entriamo in contatto con persone diverse da noi: i vicini, i colleghi, i genitori dei compagni di scuola dei figli, mentre online è più facile rinforzare continuamente la propria visione del mondo. Anche i giornali e le tv, salvo poche eccezioni, tendono a semplificare e polarizzare, per ragioni commerciali: il risultato è una cittadinanza divisa in gruppi, ciascuno convinto di essere nel giusto”.
Alla fine, insomma, scopriremo solo a posteriori se stiamo effettivamente sottovalutando i segnali di allarme. Nel frattempo, forse, nel dubbio sarà meglio prendere esempio dai nostri antenati, e pensare al serpente e non al coniglio: potrebbe fare la differenza, anche se magari ci stiamo preoccupando per niente.