
Proteste dopo il voto del Parlamento ungherese. Foto: Reuters
L’Unione Europea ha un problema, e non da oggi, che si chiama Ungheria. O meglio: che si chiama Viktor Orbàn, il nazional-conservatore populista di destra, con un passato da fervente comunista, che da 15 anni a questa parte governa il paese con toni e modi da dittatore in pectore, calpestando con sistematica tenacia i diritti civili e gli stessi valori sui quali l’Unione Europea è stata fondata, come è scritto chiaramente nell’articolo 2 del Trattato di Lisbona: rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Orbàn, classe ’63, soprannominato dai suoi detrattori “Viktator”, uno che si muove in perfetta sincronia con personaggi del calibro di Putin, di Trump, di Netanyahu, si è distinto in questi anni per aver perseguito l’esatto contrario: varando leggi restrittive sulla libertà dei media, dei giudici, contro l’immigrazione, contro le ong, demonizzando le minoranze, i clochard, i “sessualmente diversi”.
A lui basta trovare un pretesto per dare una stretta alle libertà fondamentali. Era già accaduto nel 2020, quando il Parlamento dominato da Fedesz, il partito di Orbàn, approvò una legge che consentiva al governo non soltanto di emanare decreti legge immediatamente esecutivi, saltando il passaggio dell’approvazione parlamentare, ma anche di punire con il carcere (fino a 8 anni) chiunque “ostacolasse l’azione del governo per combattere il dilagare dei contagi” o anche soltanto “pubblicizzasse fatti che siano considerati falsi o distorti, che potrebbero allarmare o agitare un gran numero di persone” (per gli “allarmisti” fino a 5 anni di galera).
Oggi lo schema si ripete: il pretesto è la “protezione dei minori”, ma la modifica costituzionale appena approvata dal Parlamento ungherese, con una maggioranza di due terzi, grazie ai voti di Fidesz e del Partito Popolare Cristiano Democratico (KDNP, di estrema destra), contiene il riconoscimento di soli due sessi, maschile e femminile. Tagliando le gambe a qualsiasi possibile espressione di diversità. Il testo recita così: “I diritti dei bambini allo sviluppo morale, fisico e spirituale sostituiscono qualsiasi altro diritto fondamentale diverso dal diritto alla vita, incluso quello di riunirsi pacificamente”. Il primo effetto dell’emendamento approvato lunedì scorso sarà il divieto permanente allo svolgimento di eventi pubblici tenuti dalle comunità LGBTQ+, (compreso il Gay Pride, in programma il prossimo 28 giugno, a Budapest), ma sarà d’ora in avanti l’escamotage, peraltro edificato su una base costituzionale, per negare il diritto all’esistenza dell’identità di genere. “Faremo una grande pulizia di Pasqua”, aveva annunciato il primo ministro, già certo del risultato. “Questa iniziativa non ha nulla a che vedere con i diritti dei bambini: è pura propaganda”, ha commentato Daniel Dobrentey, avvocato dell’Hungarian Civil Liberties Union.
Il sindaco di Budapest: “Il Pride si farà”
L’approvazione dell’emendamento ha scatenato la reazione della comunità LGBTQ+ che, almeno per il momento, conferma l’intenzione di mantenere l’appuntamento del Pride per il prossimo 28 giugno. Con lo stesso sindaco di Budapest, Gergely Karácsony, politologo, liberale, oppositore di Orbàn, che ha immediatamente lanciato la sfida mettendoci la faccia: “Segnate la data sul calendario: ci vediamo il 28 giugno per la 30ª edizione del Pride. Qualunque cosa sia successa oggi in Parlamento, il Budapest Pride sarà un evento più grande e più libero di prima. È tempo di capire che quando proteggiamo i diritti degli altri proteggiamo anche i nostri diritti: o siamo liberi insieme o nessuno di noi lo è”. Ma difficilmente il governo ungherese lascerà passare indisturbato il corteo. Peraltro, la legge in vigore consente alle autorità di utilizzare strumenti di riconoscimento facciale per identificare le persone che partecipano a eventi vietati, con multe che possono arrivare a 200.000 fiorini ungheresi (poco meno di 500 euro). Sabato scorso circa diecimila persone hanno sfilato a Budapest, ultimo tassello di una sfida a colpi di manifestazioni che va avanti da mesi, sventolando bandiere grigie e bandiere arcobaleno diventate monocromatiche, quasi a prendere in giro l’uniformità di pensiero pretesa dal governo. Ma la protesta ha ormai attraversato i confini ungheresi. Anche Amnesty International ha annunciato il lancio di una campagna internazionale che chiede alle autorità ungheresi, e in particolar modo al capo della polizia, “di lasciare che il Pride possa sfilare, di consentire alle persone di partecipare all’evento in sicurezza, libere da intimidazioni, molestie o violenze”. Diversi parlamentari europei, di varie nazionalità, hanno già annunciato che parteciperanno all’evento.
Elezioni 2026, i sondaggi non premiano Orbàn
Alla domanda sull’origine di tanto astio e volontà di repressione nei confronti della comunità LGBTQ+, e perché proprio ora, diversi analisti rispondono indicando, oltre alle questioni ideologiche, definiamole così, comuni alla quasi totalità degli esponenti della destra estrema non soltanto europea, le preoccupazioni di Viktor Orbàn per le prossime elezioni parlamentari, previste esattamente tra un anno, nell’aprile 2026. Perché i sondaggi non sono a suo favore: il partito di opposizione Tisza (“Rispetto e Libertà”, di centro-destra), guidato dall’avvocato Peter Magyar, è al momento in testa ai sondaggi, con oltre 7 punti percentuali di vantaggio rispetto a Fidesz. Ed è perciò che Orbàn sta esasperando il suo “linguaggio politico”, la definizione dei presunti pericoli, cercando di alimentare paure e di raccogliere consensi. Concentrando la gran parte dei suoi sforzi nei villaggi e nelle piccole città rurali, promettendo aiuti e dichiarando che i contadini potranno contare sul sostegno finanziario del governo. Come se avesse ormai perso la speranza di ritrovare consensi nelle grandi città, a partire dalla capitale Budapest. “Quando si avvicinano le elezioni i leader autoritari che si nascondono dietro una sottile facciata di democrazia ricorrono spesso a fabbricare “nemici” contro i quali possono contrapporsi come “salvatori”“, scrive Marius Dragomir, direttore del Media and Journalism Research Center. “Incolpano le forze straniere e sostengono complotti per minare la stabilità, la sicurezza e le tradizioni nazionali. Si tratta di una tattica ben collaudata, in cui Viktor Orbán è particolarmente esperto. Da quando ha rivendicato l’incarico nel 2010, la coalizione di governo ha regolarmente evocato avversari illusori per guadagno politico. Nel 2014 il nemico esterno erano le “entità straniere”, che cercavano di “affermare la loro autorità” sugli ungheresi comuni. Nel 2018 è stato il filantropo americano di origine ungherese, George Soros, ritratto su cartelloni pubblicitari, volantini e sui media governativi mentre complottava un “attacco frontale allo stato ungherese”. Nel 2022 sono stati la società civile e i media indipendenti ad essere accusati di lavorare a stretto contatto con gli alleati degli Stati Uniti per “manipolare la stampa globale”“. Ora è la volta delle minoranze, dei “diversi”, da presentare come pericoli per la salute dei più piccoli.
L’UE ostaggio del voto ungherese
E l’Unione Europea in tutto ciò? Cosa fa di fronte a uno stato membro che regolarmente calpesta le regole scritte (il Trattato sull’UE impone la costruzione di “una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”), che ostacola platealmente le decisioni in politica estera, incurante perfino delle procedure d’infrazione e delle frequenti sanzioni economiche cui va incontro, proprio come conseguenza dell’ostinazione mostrata nel violare sistematicamente gli standard e i principi democratici dell’UE. Una delle questioni più complesse, e di stretta attualità, riguarda l’estensione delle sanzioni contro la Russia. Si tratta di misure suddivise in due categorie principali: da un lato le sanzioni settoriali, come il divieto di importazione di alcune merci russe; dall’altro gli elenchi delle oltre 2.500 tra persone e imprese attualmente soggette a divieti di visto e a congelamento dei beni. Misure che devono essere rinnovate ogni 6 mesi. E, puntualmente, l’Ungheria vota contro (la scorsa settimana, si è opposta, assieme alla Slovacchia, a una proposta di sanzioni disposta contro il vice primo ministro serbo, Aleksandar Vulin). Tanto che Bruxelles sta tentando di trovare una scappatoia, magari stabilendo di scindere la “decisione” dal “regolamento”, un tecnicismo che garantirebbe l’esercizio della proroga a maggioranza, e non più con l’obbligo del voto all’unanimità.
Orbàn conosce bene i punti deboli di Bruxelles, le sue vulnerabilità. E sa quando è il momento di contrattare. Il mese scorso Patrick Müller, docente di studi europei all’Università di Vienna, e Peter Slominski, professore associato presso il Dipartimento di Scienze Politiche della stessa Università, hanno pubblicato uno studio nel quale dimostrano che l’atteggiamento di Orbàn verso l’Unione Europea può essere definito una strategia: “I partiti populisti di destra radicale al potere - sostengono i ricercatori - hanno fatto di tutto per smantellare gli elementi costitutivi dello Stato liberale, come dimostrato dall’Ungheria sotto Fidesz e dalla Polonia sotto il suo precedente governo. Ciò ha sollevato importanti interrogativi sull’efficacia delle salvaguardie dell'UE contro l’arretramento democratico nei suoi Stati membri. La procedura (articolo 7) che mira a proteggere valori fondamentali quali la democrazia e lo Stato di diritto, si è dimostrata inefficace. Di conseguenza, l’UE ha recentemente optato per un nuovo meccanismo di condizionalità per combattere l’arretramento dell’Ungheria sullo Stato di diritto, che le ha permesso di congelare oltre 20 miliardi di euro di fondi. Ma il governo ungherese ha risposto alla nuova assertività dell’UE attraverso una strategia che definiamo “presa di ostaggi”: in questo caso il governo di uno Stato membro combina il suo potere di veto sulle decisioni intergovernative con una strategia di collegamento tattico per ottenere concessioni sostanziali in un’altra area politica, non funzionalmente correlata”. Mettersi di traverso per ottenere altro, per costringere Bruxelles a mediare. È un gioco “sporco”, ma l’UE non ha il potere di espellere uno Stato membro. Gli unici che potrebbero estromettere Orbàn sono gli elettori ungheresi: se ne parlerà tra un anno.