SOCIETÀ

Opacità e pregiudizi complici nell'esplosione della pandemia

“L’unico modo per uscire dalla crisi è la cooperazione tra Stati: in questo il Covid-19 può diventare addirittura un’opportunità”. Questo il pensiero di Valentine Lomellini, storica delle relazioni internazionali presso l’università di Padova e studiosa di gestione delle crisi, in particolare quelle derivate dagli attacchi terroristici degli anni 2000 e 2010.

Professoressa Lomellini, quali sono le caratteristiche della crisi attuale rispetto alle altre che abbiamo vissuto recentemente?

“Il Coronavirus ha in qualche modo creato una propria forma di terrore. Ha sospeso la normalità, paralizzato l’economia e diviso le persone le une dalle altre. Ha contribuito ad alimentare la paura dello straniero, dello sconosciuto. Ha svuotato le strade, i ristoranti, le scuole, i bar. Ovviamente si tratta di un tipo di terrore particolare, perché è invisibile e non imputabile ad alcuna volontà umana o ad una ideologia; inoltre non è il prodotto di un evento unico, come spesso (ma non sempre) è un attentato terroristico. Un elemento comune però c’è, ed è l’ansia. La gente ha paura del terrorismo non solo perché genera morte ma anche perché non lo conosce e non lo può controllare: per le stesse ragioni teme istintivamente il Coronavirus”.

Intervista di Daniele Mont D'Arpizio, montaggio di Elisa Speronello

Se le crisi spesso derivano da eventi inattesi, come è possibile fare in qualche modo prevenzione?

“Se adottiamo come punto di osservazione la politica internazionale, prevenzione e soluzione possono coincidere nella cooperazione tra Stati. Sotto questo profilo nella storia del Coronavirus ci sono ad esempio due grossi ‘buchi’. Il primo è dato dalla diffusione del contagio dalla Cina al resto del mondo: spesso si descrive l’arrivo del Coronavirus come qualcosa di imprevisto, eppure sapevamo di avere con la Cina un volume molto elevato di scambi commerciali/economici/di persone. Perché gli osservatori internazionali e la classe diplomatica (non certo solo italiana) non hanno prefigurato uno scenario pandemico in tutta la sua pericolosità?”

Già, perché?

“Di primo acchito mi pare che siano possibili tre risposte: innanzitutto la totale impermeabilità del sistema autoritario cinese, che ha impedito che persino ai diplomatici stranieri in loco arrivassero notizie accurate; in secondo luogo una errata valutazione da parte degli osservatori internazionali, a cui infine si può aggiungere la decisione di far prevalere la dimensione economica internazionale su quella politico-sanitaria. Possiamo immaginare che la somma di queste ragioni possa aver contribuito a creare la situazione attuale”.

Parlava anche di un secondo ‘buco’.

“Mi riferivo al passaggio da un caso solo italiano a una crisi globale che oggi coinvolge gli altri Paesi europei eagli Stati Uniti. Anche qui pare di scorgere un difetto di comunicazione o – forse – una valutazione pregiudiziale di quanto stava avvenendo in Italia e dell’allarme lanciato dalle istituzioni del nostro Paese, con un conseguente ritardo degli altri Paesi nell’adottare misure di contenimento. Al di là delle valutazioni sull’attuale governo, è da molto tempo che dall’estero si guarda molto severamente all’Italia. Succedeva ugualmente negli anni ‘70, la Penisola generava preoccupazione non tanto per i fenomeni del terrorismo rosso o dello stragismo, quanto più perché eravamo considerati il ‘malato d’Europa’: un Paese endemicamente instabile, incapace sotto il profilo politico e della gestione amministrativa. Questo pregiudizio (ancora attuale) può aver pesato, e non poco, nella errata valutazione dell’emergenza da parte degli altri Paesi europei. Un altro errore di valutazione che può essere costato vite umane”.

La gente ha paura del terrorismo non solo perché genera morte ma anche perché non lo conosce e non lo può controllare: per le stesse ragioni teme istintivamente il Coronavirus

Che insegnamenti possiamo trarre da quello che è successo?

“Non è certo il tempo per le recriminazioni ma forse può essere quello delle riflessioni, soprattutto se queste possono contribuire a plasmare la realtà attuale. Dall’analisi del primo ‘buco’ potremmo ad esempio trarre un insegnamento importante, in futuro, sulla modalità con la quale rapportarci ai Paesi non democratici, posto che sarebbe ingenuo pensare di interrompere il dialogo con essi. Potremmo ad esempio tentare di esercitare forti pressioni diplomatiche affinché le autorità cinesi sollevino il velo sui tempi e le modalità dell’uscita dalla pandemia che ha colpito loro per primi. Un passo in questa direzione è stato compiuto dall’Iran, che al riguardo ha pubblicamente lamentato la carenza di informazioni dettagliate e veritiere. Potrebbe, ovviamente, non portare a nulla, vista la difficile permeabilità del sistema cinese: tuttavia, come dice un noto proverbio inglese, ‘it takes two to tango’ e – se non possiamo incidere sulla volontà di condividere le informazioni da parte della Cina – potremmo almeno dire di aver adempiuto alle nostre responsabilità nel tentare di farlo”.

E per quanto invece riguarda la collaborazione tra Paesi democratici, in particolare europei?

“Emerge con chiarezza che, di fronte ad una minaccia transnazionale – il Covid-19, ma ad esempio anche il terrorismo internazionale – l’unica modalità di reazione efficace è la cooperazione e la gestione collegiale della crisi. Quando si critica l’assenza di coesione europea talvolta si dimentica che stiamo parlando di un ambito molto sensibile, al pari del terrorismo, perché afferisce alla sicurezza dei cittadini ed è gestito gelosamente dagli Stati. Se per la cooperazione intergovernativa e poi in sede europea contro il terrorismo internazionale sono serviti decenni per ottenere alcuni risultati (i primi tentativi risalgono al post crisi delle Olimpiadi di Monaco del 1972), la simultaneità dell’emergere della crisi da Covid-19 e il diretto coinvolgimento di alcuni Paesi con un peso internazionale specifico – penso a Germania, Francia e Gran Bretagna – potrebbe aiutare nel trovare una modalità collegiale di gestione della crisi in tempi non biblici. Così è stato, ad esempio, dopo gli attacchi terroristici negli ultimi anni in alcune delle principali capitali europee, rispetto alle quali Parigi ha giocato un ruolo determinante”.

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