SOCIETÀ

Ripartire da qui.

Oggi, 25 novembre 2023, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, come NextGeneration CEC pubblichiamo un testo frutto di una riflessione collettiva sul tema, perché crediamo sia necessario un cambiamento anche a partire dall’Università. Ripartiamo da qui, per Giulia Cecchettin e per tuttɜ, perché ci meritiamo un mondo e una vita migliori.


 

A male who has divested of male privilege, who has embraced feminist politics, is a worthy comrade in struggle, in no way a threat to feminism bell hooks

bell hooks aveva un ottimo argomento sul perché il femminismo dovrebbe essere centrale in ogni lotta contro le oppressioni. Il femminismo è strategico, colpisce un punto molto preciso, molto delicato: l’interstizio tra il potere e l’affetto. Mette a fuoco le relazioni intime, indaga le micro-dinamiche di dominazione che si instaurano nell’ambito domestico, nelle amicizie, nel modo di vivere la sessualità, nei rapporti sentimentali. bell hooks discute la logica sottesa alla distinzione tra queste due dimensioni, mostrando come questa intimità, queste relazioni “private”, strutturino uno spazio pubblico incredibilmente più ampio.

Nella sua potente analisi sul nesso tra relazioni di genere e relazioni di potere, il femminismo ci dà anche concetti. La parola “femminicidio” non è un’invenzione del momento. È una categoria critica, partorita grazie a lotte, attivismi, studi in varie discipline e tra varie discipline. “Femminicidio” è un punto d’arrivo e un punto di partenza: ci serve per riconoscere un fenomeno sociale strutturale, per educarci a vederlo, a nominarlo, a combatterlo.

Il concetto di femminicidio indica una violenza precisa e purtroppo ancora troppo comune: è l’assassinio di una donna per il solo fatto di essere donna. E per essere una donna che vuole esprimersi, che desidera vivere la propria libertà, le proprie relazioni, il proprio corpo e i propri desideri come crede. Questo suscita paura e rabbia in un uomo che non è mai stato educato dalla società a prendersi cura della propria fragilità, concependola piuttosto come una messa in questione della propria virilità. L’elemento strutturale, culturale, sta proprio nella seconda parte di quella frase: “per il solo fatto di essere donna”.

Il patriarcato è innanzitutto un modo di pensare le relazioni tra i sessi come relazioni di dominio. E questo modo di pensare si traduce in azione, si plasma in rapporti quotidiani in cui non è tollerata la libertà e l’autonomia della persona ritenuta inferiore e ridotta a possesso. Usare la parola “femminicidio” ci permette di nominare tutto questo. Con un solo termine, potentissimo.

Nominare il femminicidio ci permette di provare dolore e rabbia, di indignarci per la morte di Giulia e di rendere operativa questa indignazione, chiedendoci il perché di un tale avvenimento e intervenendo, individualmente e collettivamente, per combatterne le cause.

La rabbia e il dolore per l’uccisione di Giulia Cecchettin, ennesimo femminicidio, sono resi più acuti dalla consapevolezza che il caso non è isolato, ma si colloca in un sistema sociale che giustifica e riproduce le condizioni di oppressione delle donne. Secondo il rapporto 2023 dell’Osservatorio Femminicidi, Lesbicidi e Trans*cidi (FLT) di Non Una Di Meno, all’8 novembre i casi in Italia erano già 103. Un numero inaccettabile, un fischio sordo di allarme che deve essere ascoltato dalle istituzioni e dalla società civile.

Identificare l’assassinio di Giulia Cecchettin come femminicidio offre la possibilità di una ripartenza per riflettere, decostruire, produrre critica, immaginare e creare alternative. Ad esempio, cambiando i modi di raccontare i fatti  sui giornali, mettendo in questione le nostre modalità di costruire narrazioni e di informare. Sostituire l’analisi critica alla romanticizzazione delle notizie è un primo passo. La trama della favola d’amore finita tragicamente offusca un elemento centrale: quella “favola” è innanzitutto un rapporto di dominazione, e questa dominazione è supportata da una cultura, un modo di pensare e di agire.

È in primo luogo all’interno del percorso di istruzione e formazione che una tale mentalità deve essere combattuta, educando al rispetto della persona. Un recente rapporto dell'UNESCO (2023) sottolinea la necessità di “un’educazione sessuale comprensiva”, quale percorso curricolare di insegnamento che riguardi  aspetti cognitivi, emozionali, fisici e sociali della sessualità. Questo percorso dovrebbe mirare a fornire a bambinɜ e alla popolazione più giovane conoscenze, competenze, attitudini di comportamento e valori che permettano loro di realizzare la propria vita dal punto di vista della salute, del benessere e della dignità. L’obiettivo è che possano sviluppare relazioni sociali e sessuali rispettose, che siano capaci di riconoscere l’impatto  delle loro scelte sul benessere proprio e delle altre persone e che comprendano come garantire la protezione dei propri diritti nel corso della loro vita.

In Italia, tuttavia, l'obbligo di educazione sessuale inclusiva nelle scuole è tuttora non riconosciuto, nonostante esso sia stato più volte oggetto di proposte di legge (tutte senza successo, l'ultima bocciata il 23 novembre 2023).

Una ripartenza richiede dunque che ci organizziamo per un’educazione sessuale, affettiva e relazionale inclusiva. Rivendica il riconoscimento  del problema a livello legislativo, la formazione di professionistɜ, protocolli di intervento, alleanze tra istituzioni.

Imprescindibile e da potenziare è in questo senso la presenza diffusa sul territorio dei Centri antiviolenza(CAV) e delle Case rifugio. Queste strutture sono volte all'accoglienza e al sostegno di donne che denunciano la violenza o l'abuso vissuti. Secondo l'ultimo rapporto ISTAT (7 agosto 2023) le richieste di aiuto ai CAV sono in tendenziale aumento. Sebbene per il 2022 si registri un calo del 10% rispetto al 2021 (da 36.036 a 32.430), questo è in parte legato al periodo contingente di analisi, che risente dell’effetto della pandemia e dei lockdown. Il numero di chiamate è comunque molto più elevato rispetto ai periodi pre-pandemia (+52,3% rispetto al 2019) e inizio-pandemia (+2,3% rispetto al 2020).

Il rapporto ISTAT sopra citato riporta inoltre che nei CAV le figure professionali sono rappresentate da 5.416 donne, il 49% delle quali operano in forma esclusivamente volontaria. Il 71% dei CAV ha meno di 11 persone operative sia a titolo gratuito sia retribuito, il 17,3% ne ha da 11 a 15 e la quota restante più di 15.

Nonostante dai dati emerga la necessità e l’urgenza di implementare il finanziamento pubblico per tali strutture, ActionAid denuncia un calo del 70% dei fondi stanziati nel 2023 (da 17 mln a 5 mln) per la prevenzione della violenza di genere. Per i CAV risulta inoltre estremamente difficile accedere alle (poche) risorse messe a disposizione (secondo ActionAid, nel 2020 i CAV hanno ricevuto solo il 2% circa dei fondi disponibili loro destinati). Infine, solo una minima parte dei fondi stanziati per la prevenzione alla violenza di genere sono rivolti alla prevenzione primaria, cioè a interventi di educazione e sensibilizzazione che hanno l’obiettivo di scardinare norme e comportamenti sociali che producono e riproducono la violenza

Una ripartenza, soprattutto, richiede un’assunzione di responsabilità individuale e collettiva. Domandarsi: che cosa posso fare? Come posso parlarne con le altre persone? Come posso cambiare le pratiche e le narrazioni nei contesti quotidiani in cui si svolge la mia vita? Attraverso quali modi posso agire come persona alleata di chi subisce molestie o abusi?

Ripartire da qui significa ripartire in primo luogo da sé stessɜ, capendo quali sono i nostri posizionamenti di potere all’interno della società per cambiarli e contribuire a rivoluzionarli. Questo appello alla riflessione riguarda tuttɜ, ma in particolare le soggettività che sono in una posizione di privilegio, che devono assumere questo compito in prima persona, anche per liberarsi dalle forme di maschilità tossica che li imprigiona in relazioni e in comportamenti limitanti. Come ci insegnano i femminismi, le discussioni dall’esperienza delle singolarità devono poi passare alla dimensione collettiva per essere davvero efficaci È necessario che gli uomini parlino tra di loro, che si informino, che organizzino occasioni di discussione e che ascoltino le voci delle donne, delle altre soggettività e delle persone esperte in queste tematiche. Solo così avranno l’occasione di non essere “tutti gli uomini”, ma preziosi alleati.

A livello istituzionale, l’Università, come luogo di produzione di saperi, di libertà, di strumenti e di pensiero critico, ha un ruolo cruciale in questo contesto. E ha molte occasioni per intervenire, attraverso lo studio, l’approfondimento, la formazione, la riflessione concettuale e critica, la produzione culturale e attraverso la creazione di strumenti mirati a combattere la violenza sulle donne, i femminicidi, i lesbicidi e i trans*bicidi.

L’Università degli Studi di Padova, l’Università della libertà - Universa Universis Patavina Libertas - ha il compito di costruire davvero degli spazi di liberazione dalla violenza femminicida e patriarcale, ha il dovere di combattere ogni tipo di molestia (sia essa esercitata sull’asse del genere, della classe, della razza, dell’orientamento sessuale, dell’abilismo o del credo religioso) e ha l’opportunità di provare a cambiare il mondo attraverso la ricerca e il sapere. Per Giulia Cecchettin e per tuttɜ.

Abbiamo il dovere di ripartire da qui, dall’Università di Giulia Cecchettin. È un lavoro di tuttɜ, che dobbiamo fare insieme con gioia, rabbia, passione e intelligenza.  


NextGenerationCEC è un nuovo progetto del Centro di Ateneo Elena Cornaro, nato su iniziativa di un gruppo di giovani ricercatrici, dottorande e studentesse dell’Ateneo, che intende costruire una mappatura delle ricerche in corso presso l’Università di Padova dedicate a tematiche di genere, o che adottano una prospettiva di genere.

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