SCIENZA E RICERCA

Lo scioglimento dei ghiacciai e quei virus seppelliti da millenni

Il riscaldamento globale potrebbe rappresentare la causa scatenante di una nuova, potenziale minaccia. Questa volta, però, il rischio che si prospetta sarebbe molto insidioso poiché andrebbe a colpire direttamente l'organismo degli esseri viventi - umani compresi. Si tratta della presenza, rilevata da un gruppo di ricerca guidato dall'università dell'Ohio, di 33 gruppi virali (28 dei quali sconosciuti) intrappolati da millenni nel ghiaccio del Guliya, in Tibet. Quello che gli studiosi prevedono, nel peggiore dei casi, è che il disgelo possa provocare la dispersione di questi patogeni nell'ambiente. Abbiamo affrontato l'argomento insieme a Bernardino Fantini, professore emerito di storia della medicina dell'università di Ginevra.

Risulta quasi certo che questi virus, una volta risvegliati, potrebbero replicarsi, diventando così potenzialmente pericolosi tanto per gli animali quanto per la specie umana. Il discorso è dunque legato a due questioni: la capacità dell'organismo umano di neutralizzare agenti patogeni esterni e l'effettiva potenza della carica virale di questi virus una volta riattivati. "La maggior parte della nostra reazione immunitaria è acquisita" spiega Fantini "quindi ad ogni generazione le popolazioni sono immunologicamente vergini e pertanto suscettibili a questi patogeni. Ogni persona deve aver incontrato il batterio o il virus durante la sua esistenza per esserne immune. Questo significa che ad ogni generazione quella successiva non ha più l'immunità acquisita dalla precedente. Al massimo può aver raggiunto una forma di eredità genetica, ma di solito è un processo di acquisizione che si ottiene sul lungo periodo. Quindi, se un patogeno che non esiste più o non è più presente in una popolazione dovesse risvegliarsi, tutta la popolazione sarebbe ad esso sensibile". Invece, per quanto riguarda la valutazione della potenza effettiva del patogeno nel momento in cui diventasse nuovamente attivo, la situazione è più complessa e dipende anche dallo stato di conservazione del virus stesso: "Alcuni dei suoi acidi nucleici o della capsula dei polisaccaridi potrebbero essere stati rovinati o distrutti, ma potrebbe anche trovarsi congelato in buone condizioni. Nel primo caso il virus non avrebbe di certo la massima potenza, invece nel secondo sì e questa è la situazione che lo renderebbe in grado di riprodursi". Dunque, anche se i patogeni superstiti risultassero essere in numero molto ridotto, ciò non rappresenterebbe di certo un motivo di sicurezza: "se si verificano le condizioni ambientali idonee" prosegue Fantini "i virus si moltiplicano in modo estremamente rapido e sono in grado di infettare velocemente delle cellule, così che in breve tempo possono svilupparsi fino a diventare patogeni". Un discorso simile vale anche per i batteri che si riproducono a mezzo spore: "Le spore possono restare in quiescenza per millenni in uno stato di vita latente e tornare poi a svilupparsi quando le condizioni ambientali lo permettono. È questo il caso del carbonchio (o antrace), per il quale si sono già verificati episodi provocati da spore liberate dallo scioglimento degli strati ghiacciati".

Appare allora ancor più evidente l'importanza della ricerca sopra citata e dell'analisi in laboratorio di questi ceppi virali: "la gran parte dei laboratori è attrezzata per coltivare virus e batteri in condizioni di sicurezza ed è quindi cruciale che, nel momento in cui si rilevano queste forme di patogeni, esse vengano studiate. In tal modo, nell'eventualità in cui il virus si manifestasse, saremmo pronti a produrre rapidamente dei vaccini. Un classico esempio è il virus dell'influenza spagnola, ritrovato anch'esso nei ghiacci; nel caso in cui si risvegliasse, è bene che gli scienziati siano pronti a fornire un vaccino contro questa specifica forma di contagio".

Diventa quindi necessario monitorare la situazione e assumere un approccio di studio verso i patogeni antichi simile a quello adottato nei confronti dei virus presenti attualmente: "L'importante" conclude Fantini "è che la scienza, e soprattutto i sistemi sanitari, siano in grado di riconoscere rapidamente questi casi e preparare i mezzi di lotta adeguati".

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