Il principe William e la principessa del Galles durante una visita ufficiale nell'isola di Giamaica. Foto: Reuters
La strada sembra ormai tracciata: il governo della Giamaica ha intenzione di tagliare definitivamente, dopo oltre 60 anni d’indipendenza, il cordone ombelicale che ancora tiene l’isola caraibica legata a Londra. E dunque rimuovere Re Carlo III dalla carica, per quanto formale, di capo dello Stato, per chiudere così definitivamente la lunga epoca del dominio britannico, che risale al 1655. La scorsa settimana il governo laburista ha presentato in Parlamento un disegno di legge, il Constitution (Amendment) Republic Act, che di fatto costituisce il primo passo di un complesso iter legislativo che, nella migliore delle ipotesi, potrebbe portare nel 2025, prima delle previste elezioni generali, alla modifica della Costituzione, con l’abolizione della monarchia a favore della Repubblica. Qualora il testo fosse approvato (prima con un voto a maggioranza di due terzi in Parlamento, e poi attraverso un referendum da sottoporre agli elettori) il nuovo presidente giamaicano diventerebbe anche capo del cerimoniale dello Stato. Marlene Malahoo Forte, ministra per gli Affari legali e costituzionali della Giamaica, ha spiegato che il disegno di legge è la risposta concreta ai giamaicani che chiedono un cambiamento: «Ogni anno, durante le celebrazioni della nostra indipendenza, il 6 agosto, la gente si chiede e ci chiede quando la Giamaica si libererà della monarchia e avrà finalmente un capo di stato giamaicano». Ancor più esplicito il ministro degli Esteri, Alando Terrelonge, convinto sostenitore della proposta di legge: «Ho sempre sostenuto che lo dobbiamo ai nostri antenati che hanno combattuto e sono morti in modo che potessimo essere liberi. Lo dobbiamo agli estensori della nostra Costituzione, al lavoro svolto dai nostri eroi nazionali, affinché la Giamaica ora cammini come una nazione veramente libera e indipendente».
A dire il vero il consenso attorno al progetto è pressoché unanime, sia tra gli esponenti del Partito Laburista, attualmente al governo, sia tra le fila del principale partito di opposizione, il People’s National Party. Anche se restano da limare alcune sfumature: su tutte il ruolo del Privy Council, il “Comitato Giudiziario del Consiglio Privato”, che ha sede nel Regno Unito, attualmente il più alto grado del sistema giudiziario giamaicano: di fatto una sorta di Corte Suprema che valuta il caso in questione e suggerisce al Capo dello Stato, che è il Sovrano, se procedere con la conferma, l’annullamento o la modifica della sentenza della Corte d’appello. Al suo posto potrebbe essere chiamata la Caribbean Court of Justice (CCJ), l’istituzione giudiziaria della Comunità dei Caraibi (CARICOM), fondata nel 2005, con sede a Port of Spain, sull’isola di Trinidad e Tobago. Ma la procedura è ancora in alto mare. Il primo ministro Andrew Holness ha fatto sapere di aver adottato “un approccio di riforma graduale”, rinviando la questione relativa al Privy Council in una “fase successiva”, senza specificare altri dettagli. «Non crediamo che si possa dire di essere completamente decolonizzati se si mantiene ancora il Consiglio Privato come Corte Suprema», gli ha risposto la senatrice Donna Scott-Mottley, portavoce per la giustizia per il People’s National Party. «È un anacronismo sostenere di volersi liberare del re, ma poi comunque mantenere la pratica di presentare proprio a lui un’istanza quando vuoi che sia fatta giustizia per il tuo popolo. Qui comunque non si tratta di differenti visioni di partiti politici, si tratta della nostra nazione. Si tratta di chiudere l’intero cerchio dell’indipendenza per il popolo del nostro paese». Popolo che, stando ai sondaggi degli ultimi anni, resta in netta maggioranza a favore dell’abbandono del Commonwealth.
Il re Carlo incontra l'alto commissario della Giamaica. Foto: Reuters
La “ferita” dello schiavismo
Negli ultimi anni i rapporti tra Giamaica e Regno Unito non sono stati del tutto idilliaci, soprattutto per via di due questioni. La prima è quella legata alle restrizioni sui visti d’ingresso, sia per turismo, sia per lavoro, dei giamaicani in Gran Bretagna (imposta fin dal 2003 dall’allora governo inglese come forma di contrasto all’immigrazione clandestina e al traffico di armi). La seconda è invece quella assai più spinosa che riguarda le “riparazioni” per il periodo della schiavitù, questione che peraltro è stata al centro di un recente incontro dei capi di stato dei Caraibi, nel quale è stata ribadita la necessità di affrontare una volta per tutte il tema, chiedendo un vertice con le nazioni europee (ma la Gran Bretagna, anche con l’ex primo ministro Rishi Sunak, ha sempre respinto l’ipotesi di presentare scuse formali per il ruolo della Gran Bretagna nella schiavitù e di pagare le riparazioni). I leader caraibici continuano invece a pretendere che le loro richieste siano ascoltate e valutate, prendendo come base il “Piano di riparazione in 10 punti”, stilato nel 2013 dalla Caricom Reparations Commission (CRC), che prevede tra l’altro scuse formali dalle nazioni che furono responsabili del traffico di esseri umani, cancellazione del debito, adeguato risarcimento per i discendentie programmi educativi. «Le comunità indigene e africane della regione - scrive la Caricom Reparations Commission - sono state vittime di crimini contro l’umanità sotto forma di genocidio, schiavitù, tratta di schiavi e apartheid razziale. I loro discendenti hanno il diritto legale alla giustizia riparatrice e che coloro che hanno commesso questi crimini, e che sono stati arricchiti dai proventi di questi crimini, hanno un caso riparatore di cui rispondere». Tema assai “sentito” anche in Giamaica, dove non sono mancati momenti di protesta e di tensione in occasione delle più recenti visite dei regnanti britannici (l’ultima nel 2022 con la visita del principe William e della moglie Kate) che nonostante le innegabili responsabilità hanno sempre voltato la testa altrove. E a proposito di responsabilità, come scrive l’organizzazione governativa Jamaica Information Service: «I coloni inglesi, dopo aver strappato nel 1655 agli spagnoli il dominio dell’isola, si preoccuparono di coltivare colture che potessero essere facilmente vendute in Inghilterra. Il tabacco e il cacao lasciarono presto il posto allo zucchero che divenne la coltura principale dell’isola. L’industria dello zucchero crebbe così rapidamente che le 57 piantagioni di zucchero dell’isola nel 1673 crebbero fino a quasi 430 nel 1739».
Il disegno di legge per la rimozione definitiva della monarchia britannica è stata accolta con favore anche dalla direttrice del Centre for Reparation Research, la sociologa Sonjah Stanley Niaah, che al Guardian ha detto: «Vogliamo essere in grado di sostenere l’avanzamento di una vera sovranità, e la presentazione di questo disegno di legge è un segnale importante che tutta la Giamaica è ormai impegnata in questo processo. È un passo nella giusta direzione». Tra le 12 ex colonie caraibiche britanniche già 4 hanno abbandonato la monarchia per passare alla Repubblica. La prima è stata la Guyana nel 1970, seguita da Trinidad e Tobago nel 1976, Mauritius, nel 1992, Barbados nel 2021 (l’isola di Dominica, nelle piccole Antille, ha ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito nel 1978, con la contestuale proclamazione della Repubblica).
Corruzione, violenza, povertà
Tuttavia per la Giamaica, patria del reggae e terra di straordinarie bellezze naturali il cui nome deriva daXaymaca, “Terra del legno e dell’acqua”, com’era chiamata in lingua Arawak parlata dagli indios Tainos, i problemi non si esauriranno di certo con il formale distacco dalla corona inglese. Perché se da un lato le politiche economiche attuate nell’ultimo decennio hanno portato concreti risultati (il debito pubblico è diminuito dal 146% al 72% del prodotto interno lordo) dall’altro restano intatte le storiche zavorre: corruzione, criminalità, disoccupazione, povertà, basso livello d’istruzione. Nell’ultimo Corruption Perceptions Index, con dati relativi al 2023, l’ong Transparency International descrive così la situazione della Giamaica: «La collusione tra i potenti e il dominio schiacciante del potere esecutivo su quello legislativo hanno indebolito le capacità di supervisione del parlamento, creando condizioni mature per abusi e corruzione. Inoltre l’incapacità dell’esecutivo di colmare le lacune nel quadro di governance indebolisce il perseguimento dei casi di corruzione che coinvolgono il crimine organizzato e favorisce l’impunità delle élite corrotte di alto livello».
Qualche segnale positivo arriva dalle più recenti statistiche diffuse della Jamaica Constabulary Force (JCF), la forza di polizia nazionale della Giamaica. In calo del 16% gli omicidi (che restano comunque molto alti in termini assoluti, 783 in un anno, più di due al giorno); in diminuzione anche le rapine (-15%), gli stupri (-32%), i furti (-6%) e le sparatorie (-2%). «Ma nonostante il calo su base annua in tutta l’isola, il crimine e la violenza continuano ad essere la principale preoccupazione per i giamaicani», scriveva pochi mesi fa il quotidiano The Gleaner, riportando i dati di un sondaggio nazionale condotto dal Market Research Services Limited. Gli altri fattori di “preoccupazione” sono l’alto costo della vita, la disoccupazione, la mancanza di opportunità per i più giovani e la corruzione. Ben lontani, comunque, da quell’emergenza nazionale di violenza che quasi cinquant’anni fa, nel 1978 spinse l’icona nazionale del reggae, Bob Marley, a riunire sul palco del concerto One Love Peace, nella capitale Kingston, le mani dei due leader politici rivali dell’epoca, Michael Manley, del People’s National Party, e il suo avversario, Edward Seaga, del Jamaican Labour Party (con le bande legate ai due partiti che avevano scatenato un conflitto paramilitare urbano che provocò morti, feriti e migliaia di sfollati). Iniziativa lodevole, che però non ottenne apprezzabili risultati, almeno non nell’immediato. «La calma non è stata raggiunta immediatamente, ma il concerto ha rotto quella situazione di stallo, senza speranza», ha commentato anni dopo il produttore discografico Chris Blackwell.