SOCIETÀ

La Tunisia al voto in una democrazia calpestata

Quella che andrà in scena tra pochi giorni in Tunisia, il prossimo 6 ottobre, è la classica elezione che di democratico ha ben poco, priva di qualsiasi credibilità politica, in bilico tra farsa e tragedia. Formalmente i candidati a ricoprire l’incarico di presidente della piccola, ma strategica, nazione dell’Africa settentrionale sono soltanto tre: quello uscente, Kais Saied, un suo fidato alleato, Zouhair Maghzaoui, del Movimento popolare nazionalista di sinistra (o Movimento Echaab), e un solo esponente dell’opposizione, Ayachi Zammel, leader del partito Azimoun, che però è finito immediatamente in carcere con l’accusa di aver falsificato le firme necessarie per la sua candidatura. Pochi giorni fa è arrivata per Zammel la condanna definitiva: venti mesi di galera e passa la paura. Come dire: se pure dovesse vincere la “squalifica” sarebbe garantita. La commissione elettorale, i cui membri sono stati scelti direttamente dall’attuale presidente, aveva già respinto altre 14 candidature, comprese quelle degli esponenti del più importante partito islamista Ennahda, per anni al governo, che non ha più sedi aperte ed è bersagliato da continui arresti. E così in corsa resta di fatto soltanto lui, quello che da cinque anni a questa parte detta le regole a suo esclusivo piacimento e che continuerà a farlo chissà per quanto ancora. Kais Saied è un ex professore di diritto costituzionale che nel 2019 venne eletto a furor di popolo (con oltre il 70% delle preferenze) da un elettorato stremato dagli “affaristi politici” che per anni avevano dominato il Paese, saccheggiandone le risorse, e soprattutto soffocando quell’imponente soffio di libertà e di democrazia sollevato dalla “Rivoluzione dei Gelsomini”, tra l’autunno 2010 e il gennaio 2011 (primo atto della stagione delle “Primavere arabe”), quando le manifestazioni di massa costrinsero alle dimissioni il presidente-dittatore Zine el Abidine Ben Ali. Saied, presentandosi come “volto nuovo della politica”, aveva promesso lotta alla corruzione e ai sistemi di potere consolidati: dando così voce alle speranze dei giovani, che gli avevano offerto la loro fiducia. Ma la luna di miele era durata pochi mesi: metodi sempre più autoritari, parlamento chiuso (nel 2021), ministri nominati e licenziati d’ufficio e senza alcuna spiegazione, Costituzione riscritta in senso “presidenziale” e approvata in un referendum boicottato da tre quarti degli elettori, qualsiasi forma di dissenso soffocata, oppositori in carcere (oltre cento solo in quest’ultimo mese, in piena campagna elettorale). Secondo Haythem Guesmi, ricercatore tunisino, ormai Saied può essere tranquillamente definito «un nuovo dittatore, un nuovo Ben Ali», come ha sostenuto in un editoriale pubblicato recentemente da Le Monde.

Arresti e minacce per oppositori, giornalisti, attivisti

Con queste premesse sostenere che oggi “la democrazia è a rischio” in Tunisia appare perfino riduttivo: qui la democrazia è già morta. Emblematica la vicenda di due noti giornalisti tunisini, Mourad Zeghidi e Borhen Bsaies, arrestati lo scorso maggio per aver criticato pubblicamente il presidente tunisino e condannati entrambi a un anno di carcere, in base a quanto previsto da un decreto legge, promulgato nel 2022 dallo stesso Saied, per combattere la diffusione di “fake news”. «Il mio lavoro di analista politico mi impone di parlare di affari pubblici», si era difeso Zeghidi, rivolgendosi al presidente del tribunale che lo stava giudicando. «Non sono né un oppositore né un sostenitore del presidente. A volte sostengo le sue scelte, a volte le critico, fa parte del mio lavoro». Tutto inutile. Il suo avvocato, Kamel Massoud, dopo la lettura della sentenza di condanna ha commentato: «Quando la politica entra nei tribunali, la giustizia se ne va». E lo stesso trattamento è riservato ad avvocati e attivisti per i diritti umani, a chiunque osi mettersi di traverso davanti alle scelte del presidente. Come sostiene anche Amnesty International nel suo annuale report, pubblicato poche settimane fa: «Le autorità tunisine hanno intensificato la repressione del dissenso, usando accuse infondate contro figure di alto profilo dell’opposizione e altri critici. Decine di manifestanti per la giustizia sociale e l’ambiente sono stati ingiustamente perseguiti. L’indipendenza della magistratura e il diritto a un processo equo hanno continuato a essere compromessi. Le osservazioni razziste del presidente hanno scatenato un’ondata di aggressioni e arresti contro i neri. Le autorità hanno aumentato esponenzialmente le intercettazioni in mare, conducendo espulsioni collettive di massa verso i confini con l’Algeria e la Libia. La rappresentanza delle donne in parlamento si è dimezzata. Le persone LGBTI e i difensori dei diritti umani sono stati oggetto di vessazioni e di una campagna di odio online. Il costo della vita e la crisi ambientale in Tunisia si sono aggravati, con un impatto diretto sull’accesso al cibo e all’acqua». Una situazione di estrema difficoltà colta anche da Le Monde, che in un editoriale pubblicato alla fine dello scorso maggio scriveva: «La scena politica tunisina, così vivace all'indomani della rivoluzione del 2011, è stata ridotta al nulla, rendendo il paese irriconoscibile. Questa depressione politica è aggravata dalla stagnazione socio-economica, che peggiora di settimana in settimana con l’incombere della bancarotta. Il nazionalismo ostentato da Saied ha messo a dura prova le relazioni con i partner occidentali della Tunisia. Ostile a qualsiasi accordo con il Fondo Monetario Internazionale, le cui condizioni sono state definite “diktat stranieri”, il presidente sta ora iniziando a delineare un riavvicinamento con Russia, Cina e Iran, mentre l’Algeria esercita un’influenza crescente».

Intanto i tunisini, in questi giorni che precedono il voto del 6 ottobre, hanno trovato la forza e il coraggio di scendere di nuovo in piazza, di sfidare la “censura” imposta dal governo in carica, di alzare la voce e di gridare slogan come “Fuori il dittatore Saied”. A far scattare la rabbia dei manifestanti, sempre ben sorvegliati da cordoni di polizia armati, è stata anche l’ennesima provocazione di alcuni deputati fedeli al governo che hanno presentato un disegno di legge per sottrarre al Tribunale amministrativo (da molti considerato l’ultimo organismo giudiziario ancora indipendente) l’autorità di giudicare sulle controversie elettorali, affidandole invece alla più “fidata” Commissione elettorale (e quest’ultima aveva recentemente respinto una sentenza del Tribunale che reintegrava tre candidati alla presidenza). Secondo l’opposizione è la prova che Saied in realtà teme il voto e che sta utilizzando la magistratura proprio per colpire i suoi avversari politici.

Il costo reale della repressione dei migranti

Ma di Tunisia s’è parlato in questi giorni, e non certo in termini lusinghieri, anche grazie a un’inchiesta condotta dal quotidiano britannico The Guardian. La vicenda riguarda assai da vicino l’Italia e l’Unione Europea, che con Saied avevano raggiunto un accordo lo scorso anno: un “memorandum d’intesa” che prevede un consistente esborso di denaro (circa un miliardo di euro, prima tranche di circa 150 milioni di euro, gran parte dei quali destinati a finanziare le attività della Guardia Nazionale tunisina, compreso il “refitting” di navi e veicoli, oltre alla fornitura di nuove imbarcazioni, termocamere e altra assistenza operativa) in cambio di un impegno, da parte delle autorità tunisine, per impedire ai migranti sub-sahariani di salpare verso l’Italia, e dunque verso l’Europa. L’accordo era stato firmato a Tunisi dalla presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, da Giorgia Meloni e dall’allora premier olandese, Mark Rutte. Risultato: gli sbarchi in Italia sono effettivamente diminuiti, ma a quale prezzo? Qual è il costo reale della repressione? Già l’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) lo scorso luglio aveva denunciato che tra il 2020 e il maggio 2024 almeno 1180 persone erano morte attraversando il deserto del Sahara, avvisando che però il numero reale era probabilmente assai più alto, tra torture, respingimenti e abbandoni in situazioni di pericolo. Mentre il quotidiano britannico titola così il suo reportage da Sfax, città portuale affacciata sul Mediterraneo da dove salpano gran parte dei barconi diretti in Italia: “La brutale verità dietro la riduzione dei migranti in Italia: pestaggi e stupri da parte delle forze finanziate dall’UE in Tunisia”. Secondo quanto ricostruito dal Guardian, «…il 90% delle donne africane migranti arrestate nei dintorni di Sfax hanno subito violenze sessuali o torture», ha dichiarato la direttrice di un’organizzazione che fornisce proprio lì assistenza medica. La Guardia Nazionale, come già documentato da diverse ong, continua a derubare, picchiare e abbandonare donne e bambini migranti nel deserto senza cibo né acqua». Respingimenti del tutto illegali, secondo quanto stabilito dal diritto internazionale. Una macchia per l’UE, che aveva sempre dichiarato di operare nell’imprescindibile “rispetto dei diritti” dei migranti.

Ora sappiamo che non è così. A El Amra, una città a nord di Sfax, è sorto un gigantesco campo profughi accerchiato da forze di polizia tunisine dove si stima che almeno centomila migranti siano stipati in condizioni che i testimoni hanno definito “orribili” e dove è tassativamente vietato l’ingresso alle organizzazioni umanitarie, compreso l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati. Una specie di “cassaforte” per il dittatore tunisino, che ora può permettersi di passare alle minacce: se l’Europa smette di pagare, la Tunisia stiperà i migranti sui barconi e li farà salpare verso l’Italia. «Ogni accordo stipulato con il regime tunisino o con quello libico è una condanna a morte per migranti e rifugiati», ha dichiarato al Guardian David Yambio, portavoce della ong Refugees in Libya.

Intanto l’Unione Europea ha negato che i fondi relativi all’accordo Ue-Tunisia siano finiti alle locali forze di sicurezza, respingendo così le accuse di “complicità” nelle documentate violazioni dei diritti umani perpetrate dalla Guardia Nazionale tunisina. Ana Pisonero, portavoce della Commissione europea per il vicinato, l’allargamento e i partenariati internazionali, ha dichiarato che «i fondi europei per la migrazione in Tunisia sono incanalati attraverso le organizzazioni internazionali, gli Stati membri e le ong presenti sul territorio. La Tunisia è un Paese sovrano. Quando ci sono accuse di illeciti riguardanti le sue forze di sicurezza, in quanto partner della Tunisia, ci aspettiamo che le autorità competenti indaghino debitamente su questi casi».

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