SOCIETÀ

Kais Saied, presidente o aspirante dittatore in Tunisia?

Passano i mesi, gli anni, e la domanda resta sempre la stessa: Kais Saied, ex professore di giurisprudenza, eletto nel 2019 presidente della Tunisia, è un aspirante dittatore? Qual è il suo reale disegno? Vuole davvero mandare gambe all’aria le istituzioni democratiche del Paese che più d’ogni altro ha saputo interpretare le istanze di partecipazione scaturite delle Primavere Arabe del 2011? A parole certamente no: «Conosco molto bene i testi costituzionali, li rispetto e li insegno. Non mi trasformerò in un tiranno come alcuni hanno detto», ha sostenuto in più di un’occasione. I fatti, invece, raccontano un’altra storia. Raccontano di un enorme accentramento di potere nelle sue mani, a colpi di decreti presidenziali e di rimozioni forzate (come quella dell’ex premier Hichem Mechichi). Raccontano di un Parlamento che da luglio 2021 non può riunirsi, tantomeno legiferare. Di alcuni parlamentari dissidenti arrestati, di una Costituzione (scritta nel 2014, che pose formalmente fine ai 23 anni del regime di Ben Alì) che appena pochi mesi fa è stata dichiarata «non più valida». Di un Consiglio Superiore della Magistratura sciolto d’imperio, lo scorso febbraio, perché accusato dal presidente di eccessivi e ingiustificabili ritardi nell'emettere sentenze in casi di corruzione e terrorismo («Non permetterò ai giudici di agire come se fossero uno stato, invece di essere una funzione dello stato»).  Di uno scontro sempre più aspro con i partiti, soprattutto con gli islamisti moderati di Ennahda, incolpati per aver contribuito all’innalzamento del livello di corruzione nelle istituzioni tunisine. E raccontano, infine, di un Parlamento definitivamente sciolto per decreto il 31 marzo scorso da Saied, dopo che diversi parlamentari (oltre la metà: 116 su 217) avevano osato sfidarlo, partecipando il giorno prima a una riunione online (non autorizzata) e votando compatti a favore dell’abrogazione dei decreti presidenziali. La reazione del presidente tunisino è stata rabbiosa: ha accusato i partecipanti di aver cospirato contro la sicurezza nazionale, promettendo indagini su di loro. «E’ un tentativo, fallito, di colpo di stato», ha detto Saied. «Non permetteremo loro di continuare l’aggressione contro lo stato». I cospiratori, ha inoltre annunciato il presidente tunisino, non potranno partecipare al referendum del prossimo 25 luglio, quando la nuova Costituzione (della quale nulla si sa finora, se non che una commissione “ad hoc” la sta elaborando) sarà sottoposta al voto popolare. Mentre le elezioni, nonostante le richieste di voto anticipato (come la “vecchia” costituzione imporrebbe, entro 3 mesi dallo scioglimento del Parlamento), restano fissate per il prossimo 17 dicembre.

I parlamentari tunisini accusati di cospirazione ora rischiano grosso: addirittura la pena di morte, secondo il decano degli avvocati tunisini ed ex presidente dell’Ordine, Abderazzek el-Kilani, oppositore dichiarato di Saied. «Non abbiamo paura di difendere un'istituzione legittima», ha rincarato Yamina Zoghlami, deputata del partito islamista Ennahda. «Non è il popolo che ci ha tolto la fiducia: è il presidente Saied che ha chiuso il Parlamento con un carro armato». Insomma: la frattura tra il presidente e buona parte dell’attuale classe politica si fa sempre più profonda. Secondo il leader di Ennahda, Rashid Ghannouchi, 81 anni, venti dei quali passati in esilio (il dittatore Ben Alì lo aveva condannato all’ergastolo per aver fondato quel partito), la decisione di sciogliere il Parlamento «rappresenta una minaccia per la Tunisia». E non soltanto Ennahda, ma anche il Free Constitutional Party (nazionalista, vicino alle posizioni dell’ex dittatore, che sta traendo un gran vantaggio da questa prolungata incertezza politica e che al momento è in testa ai sondaggi d’opinione) ha già annunciato che non parteciperà ad alcuna consultazione popolare: «Boicotteremo qualsiasi referendum sui cambiamenti politici», ha dichiarato il suo leader, Abir Moussa. «Saied ha usurpato il potere, dovrebbe immediatamente porre fine alle misure eccezionali e convocare elezioni anticipate».

Verso l’introduzione di un sistema presidenziale

Kais Saied si muove così: da un lato pretende, impone, accentra su di sé il potere, tagliando i ponti a qualsiasi contrappeso democratico, tentando di cancellare con la forza qualsiasi dissenso. Dall’altro parla di democrazia, invoca partecipazione, coesione, dialogo. Il risultato è un’opinione pubblica sempre più frastornata, divisa e frammentata, peraltro assai impegnata a non farsi travolgere dalla crisi economica e sociale. Ma i metodi imposti dal presidente non sembrano scaldare il cuore dei tunisini. Meno del 6% degli elettori ha partecipato al sondaggio online lanciato a gennaio dalla presidenza, con un questionario che avrebbe dovuto tracciare le priorità nelle riforme (l’autorità nazionale sostiene che l’86% dei votanti si è espresso a favore dell’introduzione di un sistema presidenziale). Mentre lo stesso Saied ha deciso di modificare il meccanismo elettorale che dovrebbe guidare il voto del prossimo 17 dicembre: le elezioni si terranno in due turni e i cittadini potranno votare per singoli candidati, e non più per liste. Nessun’altra istituzione o forza politica è stata consultata: «Avvierò un dialogo sulle riforme politiche, ma traditori e ladri non parteciperanno ai colloqui», ha puntualizzato il presidente.

La situazione sta creando preoccupazioni anche a livello internazionale. Il portavoce del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, Ned Price, si è detto «profondamente preoccupato per le recenti decisioni del presidente tunisino». Anche Farhan Haq, portavoce del Segretario generale delle Nazioni Unite, ha riportato la “preoccupazione dell’Onu”, invitando le parti a “evitare qualsiasi azione che porti a maggiori tensioni politiche”. Mentre il presidente Macron aveva più volte invitato il suo omologo a Tunisi (ex colonia francese) a condurre una “transizione più inclusiva”. Critiche alle azioni di Saied sono arrivare perfino dalla Turchia, dove il presidente Erdogan (non certo un paladino della sovranità popolare) è arrivato a definire lo scioglimento del Parlamento «una diffamazione della democrazia». Il ministero degli Esteri tunisino ha rilasciato una dichiarazione esprimendo “sorpresa” per i commenti di Erdogan, definiti “un’inaccettabile interferenza” negli affari interni tunisini.

Ma a mostrare dubbi e perplessità sulle reali intenzioni del presidente ci sono anche analisti e attivisti internazionali. Al-Monitor, quotidiano americano online, riporta l’analisi di Sharan Grewal, professore al College of William & Mary, a Williamsburg, negli Stati Uniti: «Se non fosse già chiaro, le mosse di Kais Saied per processare metà del parlamento per tradimento e cospirazione dovrebbero rivelare tutte le sue ambizioni autoritarie. Ha costantemente aumentato i suoi poteri in violazione della costituzione». Il presidente dell’Unione nazionale dei giornalisti tunisini (SNJT), Mohamed Yassine Jelassi, ha denunciato l’arresto sistematico di giornalisti che si rifiutano di rivelare le proprie fonti: «La Tunisia è diventato un paese che sopprime le libertà». Anche Amnesty International ha recentemente denunciato una progressiva restrizione degli spazi d’azione in Tunisia per le organizzazioni civili, con un disegno di legge che consentirebbe alle autorità di interferire con il loro operato:  «I tunisini conoscono per esperienza i pericoli che le leggi restrittive possono rappresentare per la società civile», ha commentato Amna Guellali, vicedirettrice regionale per il Medio Oriente e il Nord Africa di Amnesty International. «Durante l’era profondamente repressiva di Ben Ali, le autorità hanno utilizzato regolamenti restrittivi sulle associazioni come strumento chiave per soffocare il dissenso». Diverse ong hanno denunciato l’uso della forza da parte delle autorità come metodo per reprimere qualsiasi dissenso, con l’arresto arbitrario di oltre duemila manifestanti, soltanto nel 2022.

Economia sull’orlo del baratro

In questo scenario, tutt’altro che limpido, c’è il dilagare di una crisi economica sempre più impetuosa, aggravata da una pandemia che ha accentuato disuguaglianze e vulnerabilità. Con un tasso di disoccupazione che si sta avvicinando pericolosamente alla soglia del 20% (nel sud del paese la situazione è anche peggiore), con oltre il 40% dei giovani senza lavoro. Chi può emigra (i tunisini sono primi per arrivi in Europa attraverso il Mar Mediterraneo). Il debito estero nel 2021 ha raggiunto il 100% del PIL.  L’inflazione galoppa, i prezzi dei prodotti di base sono aumentati vertiginosamente. Oltre il 10% della popolazione vive ormai sotto la soglia di povertà. E la guerra in Ucraina sta peggiorando la situazione: la Tunisia importa circa il 70% del proprio fabbisogno di cereali, e Russia e Ucraina coprivano oltre la metà delle importazioni di grano. E gli approvvigionamenti risentono anche dell’aumento dei prezzi di trasporto. Il potente sindacato tunisino UGTT, che aveva inizialmente sostenuto compatto le mosse di Saied, ha apertamente attaccato il presidente e minacciato scioperi in segno di protesta. Mentre il suo leader, Noureddine Tabboubi, ha chiesto a Saied “chiarezza sul piano politico”. La Tunisia ha un disperato bisogno di aiuti economici: il Fondo Monetario Internazionale sarebbe anche disponibile a concedere un prestito (si parla di 4 miliardi di dollari), ma chiede, come condizione imprescindibile, stabilità politica e un piano di riforme che goda di un ampio consenso interno. Nulla di realizzabile nel breve periodo: una significativa riduzione della spesa pubblica porterebbe, ad esempio, al licenziamento di molti dipendenti pubblici. Il sindacato UGTT ha già detto no: «Le riforme dovranno essere giuste ed eque per tutti i gruppi sociali». Una tensione che ha spinto l’agenzia Fitch a declassare il rating del debito sovrano tunisino da “B-“ a “CCC”: «Il declassamento riflette i maggiori rischi fiscali e di liquidità esterna nel contesto di ulteriori ritardi nell’accordo su un nuovo programma con l’FMI dopo i cambiamenti politici del luglio 2021», scrive Fitch nel suo report del mese scorso. «L’opposizione sociale radicata e il continuo attrito con i sindacati riducono la capacità del governo di adottare misure di consolidamento fiscale rigorose, complicando gli sforzi per garantire il programma del FMI».

Dunque per Kais Saied le spine sono molte, mentre continua a saltellare sul crinale dell’ambiguità. E il primo ministro Najla Bouden Romdhane, nominata un po’ a sorpresa nel settembre dello scorso anno, prima donna nella storia della Tunisia a guidare (seppur formalmente) il governo, non sembra avere la forza per invertire il corso degli eventi. Lui, il presidente, continua a sostenere di voler ripulire la Tunisia dalla corruzione e dalle élite imprenditoriali che hanno imperato nell’ultimo decennio. Vagheggia (a parole) l’introduzione di una democrazia diretta (con l’introduzione di un presidenzialismo), bypassando il ruolo dei partiti politici, spesso additati come “traditori e corruttori”. E reagisce con sdegno di fronte alle accuse di aver oltrepassato il confine imposto dalle regole democratiche. Come quando, nel commentare lo scioglimento del Consiglio Superiore della Magistratura, apertamente criticato dagli ambasciatori del G7 in Tunisia, ha tenuto a ribadire: «Siamo uno Stato sovrano, siamo consapevoli degli equilibri internazionali e conosciamo meglio di loro accordi e convenzioni. Non siamo un popolo selvaggio. E non accettiamo di interpretare il ruolo dello studente con loro a fare da insegnanti». Una reazione d’orgoglio, ribadita anche mercoledì scorso, durante la commemorazione del 22° anniversario della morte di Habib Bourguiba, primo presidente e “padre” della moderna Tunisia. Ma se anche le diplomazie estere diventano i “nemici”, come i partiti politici, come le più importanti istituzioni, come i parlamentari e i giudici, come le associazioni di volontariato, le ong, come i giornalisti, come i tunisini che scendono in piazza e vengono aggrediti dalla polizia, anche quando l’oggetto delle proteste sono la fame, l’assenza di un piano per risollevare le sorti dell’economia, ecco allora che la partita, per il presidente Kais Saied, diventa quasi impossibile da vincere. Con buona pace dell’ultima forma di democrazia rimasta in Nord Africa.

 

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