SOCIETÀ

Ricerca negli Stati Uniti: tra veti, diaspore e opportunità (per l'Europa)

Le notizie che arrivano dagli Stati Uniti sono sempre più somiglianti a quelle di una realtà distopica. In poco più di tre mesi di governo, l’amministrazione guidata da Donald Trump è riuscita a modificare il nostro mondo in modi che, forse, non credevamo possibili. Pressoché tutti gli ambiti della società sono stati toccati da questi cambiamenti: dall’economia alla salute, dalle politiche ambientali alle relazioni internazionali. C’è poi un settore su cui l’amministrazione Trump si è scagliata con particolare veemenza: quello dell’istruzione superiore e della ricerca.

Fin dai primi giorni del suo secondo mandato, infatti, il presidente degli Stati Uniti ha attuato le sue promesse elettorali sul taglio delle sovvenzioni inefficienti (decise dal nuovo dipartimento per l’Efficienza governativa, DOGE, guidato da Elon Musk) e sull’ostracizzazione di concetti “ideologici” come il cambiamento climatico o la differenza tra sesso biologico e genere: nel giorno del suo insediamento, con un ordine esecutivo Trump ha intimato a tutti gli organi governativi di rigettare l’idea che possa esservi una differenza tra il sesso alla nascita e il genere di una persona e ha ordinato di eliminare tutti i programmi basati su diversità, equità e inclusione (DEI). Diversi ordini esecutivi hanno ridotto drasticamente il sostegno pubblico a una molteplicità di programmi di ricerca federali, che, dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi, aveva contribuito in maniera sostanziale all’avanzamento della conoscenza scientifica e tecnologica globale.

Alcuni dei maggiori organismi federali di ricerca, come la National Science Foundation (NSF), i National Institutes of Health (NIH), la NationalOceanic and Atmospheric Administration (NOAA), e la Environmental Protection Agency (EPA) sono stati colpiti – come ha sintetizzato Francesco Suman su Il Bo Live – da tagli molto consistenti, da estesi licenziamenti (una prima tranche ha riguardato migliaia di ricercatori, e ne è arrivata una seconda, ancora più ampia, ad aprile 2025) e diverse forme di censura, come il blocco di interi programmi di ricerca considerati non più in linea con le priorità della ricerca pubblica. 

Europa, ultima roccaforte della libertà di pensiero?

Queste varie forme di censura sono qualcosa di inedito per la ricerca statunitense, che finora era stata florida proprio grazie all’estrema libertà e ai generosi finanziamenti, pubblici e privati, di cui ha beneficiato per decenni. Questo repentino mutamento di panorama ha colto tutti alla sprovvista – ricercatori statunitensi per primi, tra i quali non si è ancora creato un movimento organico di protesta, ma anche la comunità scientifica internazionale, che fino ad oggi aveva guardato agli Stati Uniti come l’avamposto della libertà di pensiero e di ricerca. Di fronte a questo nuovo scenario, la comunità scientifica internazionale sta iniziando a mobilitarsi: ma non è facile capire la magnitudine del cambiamento e l’entità dei danni causati dalle decisioni del governo statunitense.

Paolo Vineis, professore di epidemiologia ambientale all’Imperial College di Londra e scienziato di grande esperienza, con molti contatti negli Stati Uniti, riconosce che è difficile fare previsioni su quel che sta accadendo negli Stati Uniti. "Partiamo dal presupposto che ci sia effettivamente un forte ridimensionamento dell’attività di ricerca scientifica negli Stati Uniti", afferma Vineis. "Quello che sappiamo finora è che sono iniziati i licenziamenti: conosco diverse persone che sono state licenziate in agenzie federali. Inoltre, si intende ridimensionare fortemente i fondi per le agenzie federali e i fondi per l'università. Il cosiddetto overhead, cioè la percentuale di fondi che viene destinata al mantenimento delle strutture e delle attività correnti, che fino a poco tempo fa ammontava a circa il 55% dei fondi assegnati per progetti di ricerca, è stato ridotto al 15%. Rispetto alle agenzie federali, le università hanno sicuramente maggiori margini di manovra perché possono contare sui donatori, possono partecipare a concorsi internazionali per fondi competitivi, e così via. Le agenzie federali, invece, hanno meno margini di manovra, poiché dipendono più direttamente dai finanziamenti statali. Non so prevedere quel che succederà, fino a che punto arriverà la compressione delle attività di ricerca negli Stati Uniti, ma si stanno accumulando segnali molto negativi".

Si profila, dunque, uno scenario tutt’altro che roseo per il mondo della ricerca. Ma non tutto il male viene per nuocere: secondo Paolo Vineis, questo improvviso ritrarsi degli Stati Uniti potrebbe rappresentare un’insperata opportunità per l’Europa di affermarsi come baluardo della libertà di pensiero a livello globale. "Il nuovo posizionamento degli Stati Uniti potrebbe rappresentare una possibilità per l’Europa nel settore della ricerca, ma anche in altri campi. Spero che si confermi questa tendenza, e spero anche che vi siano le capacità di leadership necessarie perché questa opportunità venga colta", dichiara il professore.

"Finora – prosegue Vineis – i paesi che si distinguevano per le più avanzate attività di ricerca e per la qualità dell’insegnamento universitario e post-universitario erano gli Stati Uniti, l’Inghilterra, il Giappone e alcuni paesi europei. Oggi, ci sono nuovi attori che possono giocare un ruolo centrale in questi ambiti: la Cina, ad esempio, sta emergendo rapidamente, con grandi capacità ma anche con molte ombre". Per l’Europa, un buon posizionamento è dunque essenziale nel nuovo contesto che si sta delineando: "Una delle proposte che sono circolate è che venga data anche a ricercatori statunitensi la possibilità di fare domanda per i fondi di ricerca della Commissione europea". Questo renderebbe l’Unione Europea ancora più attrattiva per i lavoratori di università e centri di ricerca americani, che includono diverse eccellenze. Molti, infatti, stanno pensando di lasciare gli Stati Uniti o lo hanno già fatto: il 75% dei rispondenti a un’indagine condotta da Nature ha affermato che vuole lasciare il Paese. E tra le mete a cui si guarda con più speranza c’è proprio l’Europa, che con gli Stati Uniti ha condiviso una lunga e radicata tradizione di libertà di ricerca e di pensiero.

Think inside the box: le nuove frontiere della censura

Da gennaio, negli Stati Uniti hanno cominciato a circolare liste (mai ufficiali) di parole e concetti vietati, che non potevano, cioè, comparire in articoli scientifici e progetti di ricerca – pena la negazione dell’accesso ai finanziamenti – per via della loro scomodità politica. A marzo 2025, la ONG PEN America ha censito più di 250 parole escluse dalla ricerca scientifica per via della loro presunta carica “ideologica”: tra queste vi sono termini scientifici essenziali per alcuni ambiti della ricerca (come ambiente e salute), come “cambiamento climatico”, “razzismo”, “obesità”, “Covid-19”, “genere”, “inquinamento”, “indigeni”, “aborto” e molte altre, compreso tutto l’universo semantico che rimanda alla triade DEI (diversità, equità, inclusione).

Si tratta di un’inedita riduzione della libertà di espressione, ma quel che è forse ancor più preoccupante è la crescente auto-censura che molti scienziati stanno iniziando ad applicare preventivamente sul proprio lavoro nella speranza di continuare a ricevere i fondi necessari per fare ricerca: un fenomeno che l’epidemiologo Francesco Barone Adesi, in una conferenza organizzata da Epidemiologia&Prevenzione e PhilHeaD, ha definito “obbedienza anticipatoria”, che può avere pesanti conseguenze sulla libertà di espressione, sulla profondità della discussione pubblica su temi di cruciale importanza e, non ultimo, sulla qualità della ricerca scientifica.

Alla domanda se l’onda lunga di questa censura potrebbe avere conseguenze anche sulla ricerca europea, visti gli stretti rapporti di collaborazione che legano le due sponde dell’Atlantico, Paolo Vineis ha risposto con un fiducioso no: "Non credo che questa evenienza si verifichi, per diversi motivi. Primo, perché in Europa, a differenza di quanto è accaduto finora negli Stati Uniti, il mondo della ricerca ha subito manifestato sconcerto e ha iniziato a proporre alternative – ad esempio, destinare parte dei fondi europei ai ricercatori in uscita dagli Stati Uniti. Secondo, perché è davvero poco verosimile che noi europei possiamo accettare questo genere di censura. L’Europa ha una forte tradizione di attività di ricerca scientifica finalizzata a guidare le scelte politiche in favore del bene comune; i finanziamenti pubblici sono destinati in parte a temi di ricerca liberi, di scienza pura, e in parte a rispondere a quesiti politici importanti – cambiamento climatico, inquinamento, intelligenza artificiale, e così via. Anche se gli statunitensi coinvolti in alcuni di questi progetti di ricerca dovessero abbandonare il lavoro, non credo che gli europei rallenterebbero o cesserebbero lo studio di argomenti di grande priorità per il bene pubblico e per la pianificazione collettiva. Per tutti questi motivi, non credo che l’Europa verrà influenzata da quanto accade nell’America di Trump. Anzi, potrebbe paradossalmente trarne un beneficio, assumendo l’onere di guida nella ricerca mirante a rispondere a questi quesiti".

La ricerca europea, in effetti, si è subito mobilitata in difesa dei principi e dei valori di libertà e autonomia che la animano. Molte sono state le iniziative, pratiche e simboliche, che sono state avviate in sostegno dei colleghi statunitensi. Ne è un esempio la dichiarazione pubblicata da SPHERA (Single Planet Health and Environment Research Agenda), un consorzio che riunisce alcune dei principali centri di ricerca all’intersezione tra salute pubblica e ambientale e che fornisce alla Commissione Europea indicazioni sulle priorità della ricerca in tema di ambiente, salute e cambiamento climatico.

Nella dichiarazione, firmata da decine di scienziati di varie istituzioni da tutto il mondo e che vuole interpretare il sentimento della “comunità scientifica globale”, si afferma la comune difesa “dell’integrità scientifica, della libertà di ricerca e del ruolo della scienza nell’affrontare le sfide globali”. Per contrastare il movimento – evidente negli Stati Uniti, ma presente anche in altri Paesi – di marginalizzazione, censura e ideologizzazione della ricerca scientifica, gli autori del comunicato propongono un’agenda in nove punti, che richiama la necessità di difendere la libertà scientifica e le istituzioni scientifiche dalle ingerenze politiche, l’importanza di coinvolgere l’opinione pubblica, di sostenere e rafforzare la collaborazione internazionale e di supportare i colleghi “che vivono in paesi in cui la scienza è oppressa, che devono affrontare crescenti pressioni politiche e istituzionali che minacciano la loro capacità di portare avanti e comunicare liberamente le loro ricerche”.

Il valore democratico della libertà scientifica

Per Vineis, che è membro di SPHERA e tra gli autori della dichiarazione del consorzio, rispondere a questa riduzione dello spazio di libertà della scienza è un dovere civico, perché la scienza è un patrimonio collettivo che deve essere protetto.

"l primo valore dell’attività scientifica è rispondere a curiosità esistenziali: ci permette di avvicinarci a conoscere la natura delle cose, di comprendere meglio le leggi naturali, e fornisce una concezione del mondo basata su osservazioni sistematiche che influenza il nostro modo di pensare e informa la struttura della nostra società. L’attuale attacco alla scienza è anche un attacco all’ideologia che essa sottende: la scienza ha dato origine a una cultura laica che, evidentemente, oggi non viene apprezzata. Ma questa visione del mondo si basa su conoscenze e dati più solidi rispetto a quelle costruzioni ideologiche non sono basate su osservazioni coerenti, ripetute e condivise, e offre dunque grandi vantaggi rispetto ad esse. L’approccio scientifico alla realtà, il cui significato è racchiuso nel motto della Royal Society inglese (Nullius in verba: “non credere nelle parole di nessuno”, che criticava la fede acritica nelle parole di Aristotele, considerato in età medievale e moderna il massimo depositario della verità scientifica), è stato elaborato di pari passo al pensiero politico liberale e ad alcune sue caratteristiche essenziali, come la separazione dei poteri. Il fatto che oggi siano sotto attacco contemporaneamente la separazione dei poteri e la libertà della scienza suggerisce che sia in corso un attacco ai principi della società liberale".

Poi, chiaramente, ci sono i contributi pratici della scienza al miglioramento della qualità della vita delle persone: "La scienza e la tecnologia forniscono molti beni e prodotti utili per le persone: pensiamo ai vaccini, per esempio. Se si disinveste dalla ricerca pubblica sui vaccini, questo evidentemente avrà conseguenze colossali per la gente comune. Io non so quanto le persone si rendano conto della portata delle conseguenze che queste politiche potranno avere sulle loro vite", afferma Vineis. "Io non credo nell’oggettività e nella neutralità della scienza, ma ammetto che mi fa paura la tendenza odierna a caratterizzare le discussioni soltanto come opinioni sui social media: i dati scientifici sono fatti, non possono essere derubricati a mere opinioni".

La perdita di un chiaro confine tra conoscenze scientifiche e opinioni personali rischia di aggravarsi per via di un’altra diretta conseguenza del taglio dei finanziamenti al mondo della ricerca: la riduzione degli investimenti nell’insegnamento superiore. Questo è un altro aspetto particolarmente preoccupante – commenta l’epidemiologo – perché non investire nell’insegnamento significa rinunciare a formare la futura generazione di scienziati e ricercatori.

"Oggi crediamo che per acquisire competenze basti ricevere “pillole” di informazioni. Oltre al fatto che si tratta, spesso, di informazioni senza contesto, e quindi prive di un reale significato o valore informativo, bisogna rimarcare che la cultura si trasmette anche attraverso gli esempi, i miti, le fiabe... C’è una dimensione ermeneutica per cui la semplice trasmissione dei dati è insufficiente. Eppure, vediamo un appiattimento su un’idea “informatica” della conoscenza, che si riflette, negli Stati Uniti, nel predominio di grandi tecnocrati in posizioni di potere economico e politico. È diffusa, nel tipo di destra che è oggi al potere in molti paesi, l’idea secondo cui “con la cultura non si mangia”, che serve più il saper fare che il sapere. La riduzione degli stanziamenti a ricerca e formazione superiore è coerente con questa visione sociale e politica. Ma il conseguente impoverimento della trasmissione di conoscenza agli studenti di dottorato, alle nuove generazioni, è un trauma profondo a livello teorico e pratico, a cui si aggiunge la perdita di quella cultura diffusa e condivisa che è radicata nel pensiero e nella tradizione europei", e che ora dobbiamo difendere con tutti i mezzi possibili.

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