SCIENZA E RICERCA

Strumenti per il presente: epigenetica, ecologia e politica di Marcello Buiatti

È passato quasi un mese dalla scomparsa di Marcello Buiatti il 28 ottobre 2020 e ritengo che molti dei suoi ragionamenti interrotti possano essere strumenti anticipatori di una rotta consapevole tra ricerca e politica ambientale per questo nostro drammatico presente. 

Buiatti è stato in Italia uno dei primi genetisti e teorici dell’evoluzionismo a lavorare sulla biodiversità per studiarla e per difenderla quando questo termine tecnico, ‘biodiversità’, si stava solo affacciando. Da evoluzionista lui parlava della ‘multiformità e ricchezza’ dei viventi già dagli anni ’80 come di un processo e non di un computo di specie: una proprietà della vita intrinseca e in fieri, dotata di una sua ‘coerenza disordinata e disordinante’ (Buiatti, 2004). Se si compromettono le due biodiversità, quella organica (genetica, popolazionale, comportamentale,) e quella ambientale (con la distruzione della varietà degli ecosistemi) sul pianeta scompare la vita; anzi, come spesso precisava ‘le vite’, o il ‘multiverso’ delle vite. Oggi, e l’abbiamo toccato con mano nel caso della pandemia Covid-19, le megalopoli che smantellano le nicchie selvatiche, le omologazioni vegetali nelle vaste monocolture e gli immensi allevamenti intensivi sono fattori implicati sia nelle zoonosi virali che, successivamente, negli effetti degli inquinanti aerei che rendono più letale l’evoluzione del contagio. 

Denso di prefigurazioni future, tra gli anni ’80 e i primi anni del XXI secolo, il paesaggio intellettuale di Buiatti si dispiegava tra genetica evoluzionista, storia ed epistemologia della biologia, ecologia, ambientalismo e politica della ricerca. Direi che i nessi che seppe creare lo rendono oggi straordinariamente interessante per quattro ragioni. 

La prima, perché egli lega costantemente la biologia e la genetica con l’ecologia, la seconda, fa dialogare l’ecologia come disciplina con l’ambientalismo come movimento civile, la terza, associa la salute umana con gli ambienti di vita praticati, e infine, la quarta, alla luce di tutto ciò, giustifica biologicamente ed ecologicamente una visione politica in cui, se salvezza per il futuro ci potrà essere sul pianeta a rischio, sarà grazie alle capacità di resilienza e di mitigazione del danno già inferto: attraverso la solidarietà reciproca globale degli umani (e s’affaccia così già l’idea di una ‘giustizia ambientale’), il cambiamento dei valori di mercato (con le sue denunce drammatiche alla smaterializzazione delle vite a seguito della smaterializzazione della finanza virtuale, e la condivisione di mondi che non abitiamo, ma coabitiamo in convivenza con il resto degli altri viventi.

Questo genetista ambientalista, esperto in genetica, epigenetica e comportamento dei vegetali, nonchè colto storico della biologia, si era formato da giovane con alcuni tra i più importanti primi genetisti italiani, come il biofisico Adriano Buzzatti Traverso, il genetista di popolazioni Luca Cavalli Sforza, e attraverso la precoce frequentazione del biologo evoluzionista Michael Lerner, suo fondamentale e amato consigliere. Dopo l’esperienza nei prestigiosi laboratori inglesi e un post-doc in Usa, c’era stata la sua esperienza di agronomo militante nella Cuba di Fidel Castro, e in seguito la cattedra di genetica all’Università di Firenze. Un prof ordinario molto poco ordinario nel contesto accademico. Le sue figure di riferimento ideali erano dei grandi biologi evoluzionisti eterodossi, come Conrad Waddington, Ivan I. Shmalhausen, Joseph Needham, l’amico Michael Lerner, a lungo quasi degli sconosciuti in Italia e riscoperti da molti di noi anche grazie lui. 

Tra i suoi contemporanei si ritrovava sintonico con i biologi di sinistra anglosassoni del gruppo di Science for the People, Richard C. Lewontin, Richard Levins, Steven Rose, Stephen J. Gould, con Susan Oyama, con Eva Jablonka, innovatori e innovatrici dello sguardo sul vivente a partire degli anni ‘70, genetisti evoluzionisti, paleontologi, neuroscienziati e filosofe della biologia politicamente impegnati, e ai quali si deve la ripartenza di un pensiero darwiniano pluralista, non più solo centrato sul gene o sulla selezione. 

Scienziato e docente stimato e trascinante per i suoi, anche lui era eterodosso rispetto al mainstream della biologia del dopoguerra e degli anni ’60, una biologia, dichiarava spesso, ‘macchinica e riduzionista’, lontana da quello che nel concreto sono, fanno e subiscono i corpi viventi.

Altri suoi sodalizi trasversali ed eterodossi, altre relazioni costruttive di un’originalità di pensiero poliedrica, erano quelle con il pensatore e grande critico letterario marxista Sebastiano Timpanaro, con alcuni dei filosofi della scienza della scuola di Geymonat, tra cui Silvano Tagliagambe, e con la scuola di filosofia della scienza romana: con noi, epistemologhe, storiche e storici della biologia con cui si diede insieme vita al ‘Centro Interuniversitario di  epistemologia e storia del vivente’, Resviva, per trent’anni luogo di dialogo euristico tra filosofi e biologi  – e di cui egli era ancora ultimamente Presidente Onorario. 

Da un lato come importante ricercatore internazionale ha prodotto, e fin quasi alla fine della sua vita, studi significativi sullo statuto stesso della biologia teorica a confronto con il mondo delle scienze esatte (tra cui quelli con suo figlio Marco, fisico, o con il matematico dell’ENS di Parigi, Giuseppe Longo (Buiatti, Longo, 2013). Dall’altro lato c’era l’interlocuzione culturale costante con i gruppi di studio più informali, come il Circolo Gregory Bateson, l’associazione degli insegnanti di scienze naturali (ANISN), il frastagliato arcipelago dell’ambientalismo italiano di cui, assieme ad altri studiosi chiave come Marcello Cini, Laura Conte, Anton Giulio Maccacaro, Giorgio Nebbia (per ricordarne solo alcuni) fu catalizzatore. Creando con costoro la particolare via italiana all’ambientalismo scientifico, contrassegnata dall’attenzione alla salute sul territorio, dalle lotte per la chiusura delle centrali nucleari dopo la catastrofe di Chernobyl, e dall’ecotossicologia nelle fabbriche – un accostamento questo sostenuto dal costante confronto con la sua amata sorella medico, Eva Buiatti, l’apripista italiana all’epidemiologia ambientale.

Vediamole da vicino alcune sue cruciali anticipazioni di percorso oggi corroborate e la cui paternità deve essere riconosciuta sia per i contenuti specifici delle sue ricerche, sia nella componente di politica della ricerca.

Nella sua ricerca biologica c’è il lavoro sul ruolo dell’epigenetica per una lettura del Dna non come codice astratto ma sottolineandone la realtà, ‘aggrovigliata’ diceva, di macromolecola dinamica, immersa nel suo microambiente cellulare. Oppure l’attenzione precoce alle reti di retroazioni e co-costruzioni reciproche tra organismi, microorganismi e ambienti di vita, realtà ‘mai additive’ ma sempre dialogiche, complesse, sistemiche, reticolari nel farsi incessante degli ecosistemi con i loro abitatori: punta di diamante oggi di un vero e proprio nuovo campo di ricerca con l’ecological evolutionary developmental biology o Eco-Evo-Devo, ovvero l’articolazione fine del tessuto connettivo tra l’evoluzione e la genetica dello sviluppo alla luce dell’ecologia. 

 Diceva, ciò che ‘costruisce’ i viventi non è tanto, non solo, il retaggio del loro Dna che di per sé resta inerte se non si complementa con gli attivatori proteici che incontrerà nello snodarsi della vita – all’inizio genericamente chiamata da lui la nostra ‘plasticità’. Altrimenti detto, sono le esperienze e le relazioni di cui si intesse ciascuna vita che ci costruiscono e ci modificano circolarmente con i nostri simili, creano stratificazioni che letteralmente modificano anche le connessioni sinaptiche dentro i nostri cervelli mentre interagiamo. Ciò non diversamente dalle altre relazioni con le molteplici forme di vita con cui si convive intessendo legami di mutue dipendenze, conflittualità, cooperazioni: con tutti, animali, batteri, virus, piante. 

Le conseguenze teoriche e fattuali derivanti da questo impianto toccavano il tema delle connessioni tra pratiche di comportamenti e di tecniche umane e conseguenti modifiche dello ‘stato vivente della materia’. È sui nostri stessi corpi che ricadono le trasformazioni che abbiamo portato negli habitat: le culture e le forme di produzione ci plasmano, ci alterano, ci selezionano direttamente nel fisico, nei metabolismi. Nel mescolamento, nel meticciato, nella multiculturalità – tra colture e culture, tra la materia incorporata, respirata e alimentare e le invenzioni, sia tecnologiche che simboliche e astratte si intrecciavano per Buiatti ciò che il pensiero filosofico e quello scientifico avevano sempre tenuto separato. Così l’interdisciplinarietà gli era pratica cognitiva e politica usuale, non programma d’ecumenismo. Poneva in questo modo, ovviamente senza poterlo prevedere, molte delle basi che oggi hanno condotto all’interdisciplinarietà propria degli studi sull’emergenza climatica dell’IPCC, o che giustificano denunce e proposte delle nuove generazioni, come i Friday for Future

Tale era il ragionare esteso di un genetista che nasceva agronomo, e fiero di queste origini. Era peraltro un modo di ragionare il suo profondamente darwiniano in senso lato, che legava gli organismi agli ecosistemi, ne tirava i fili delle connessioni plurime, creative o distruttive, a seconda dei casi, e dei soggetti in causa. Ed era un ragionare esteso anche in profondità. Attraverso la profondità della storia della sua disciplina di cui Buiatti era sofisticato cultore e che gli permetteva di interrogarla, tale sua amata disciplina, dall’interno delle sue dinamiche presenti e passate, con strumenti anche epistemologici e politici. 

Infatti nelle analisi dei processi di feed-back tra scienza e società, per la ricerca biologica egli ipotizzava che “la struttura culturale dominante, a sua volta ovviamente influenzata dalla organizzazione socieeconomica, sposti l’attenzione di chi osserva la natura su angoli visuali e livelli di osservazione di volta in volta diversi, favorendo la formulazione di teorie che universalizzano concetti e dati necessariamente parziali perché appunto legati ad una osservazione di parte. Queste teorie a loro volta circolarmente interverrebbero sulla stessa struttura culturale che le ha in parte generate, accelerandone la modificazione”.

Anche in tutto ciò anticipava le linee guida di quanto oggi trattiamo in dettaglio. Parlo degli studi di Science&Policy che da circa vent’anni hanno un loro spazio di ricerca e d’insegnamento ragguardevole, mentre il riconoscimento dell’esistenza di una citizen science ne articola la consapevolezza su più fronti in contatto tra ricerca e contesti sociali. 

Eppure, non dimentichiamolo, queste posizioni negli anni in cui Buiatti le esprimeva venivano spesso bollate come attacchi alla oggettività e neutralità scientifica, spia di un tracimare ideologico della politica nella ricerca. Oggi è chiaro, la visione politica, filosofica e etica insita nel suo posizionarsi critico e consapevole delle dinamiche anche implicite del mondo della ricerca – non diversamente dal caso del fisico romano teorico della non-neutralità della scienza e suo grande amico, Marcello Cini – non era un’adulterazione della purezza del fare scienza, quanto piuttosto la capacità matura di essere uno scienziato capace di una riflessione autocritica e ben circostanziata sulle molteplici ragioni che stanno a monte di qualsiasi indirizzo di ricerca. Era un livello di crescita di conoscenza in più.

È anche alla luce di questo convincimento che egli arrivò a una serie di prese di posizioni in merito ai luoghi più caldi in cui ricerca, politica ed economia si collegano. Come le battaglie intraprese contro gli esosi ‘cespugli brevettuali’ che rendono la ricerca avanzata privilegio di pochi centri ricchissimi e contro l’idea che il brevetto equipari a qualsiasi ‘prodotto d’ingegno’ le ingegnerizzazioni della materia vivente, additando esplicitamente nelle grandi holding finanziarie dell’agrobusinnes un’antitesi con lo spirito di disinteresse della ricerca scientifica. 

Il genetista Buiatti era stato un pioniere degli studi sulle biotecnologie e proprio dal loro interno era diventato un esperto europeo in materia di Ogm, critico delle loro possibili conseguenze distorte e del rischio di abbattimento della biodiversità per il puro profitto in mano alle multinazionali delle sementi. In questa battaglia si era attirato gravi inimicizie ed entusiasmi imbarazzanti. Eppure da biotecnologo delle piante nei suoi laboratori a Firenze, aveva sempre sottolineato le potenzialità delle nuove tecnologie di ingegneria genetica. Lo sottolineava, riconobbe il grande zoologo evoluzionista italiano, maggiore per età e suo amico, Pietro Omodeo, “con felice pacatezza che lo mette al riparo da accuse di faziosità e lo rende tranquillamente credibile”, ritenendo però cruciale la domanda sugli scopi, perché in questo campo “solo la chiarezza degli intenti e la libertà delle scelte può evitare disastri”. Il ruolo economicamente e ecologicamente nocivo di sfruttamenti (spesso post-coloniali) del cotone geneticamente modificato in India, dei biocarburanti in Nigeria, quello delle vaste aree della foresta amazzonica appositamente disboscate per le monocolture di soia, di colza e mais, a distanza hanno ormai confermato due esiti divergenti e complementari: sono disastrosi per gli ecosistemi e le popolazioni locali e sono altamente redditizi per la finanza sovranazionale.  

Quel doppio sguardo che praticava dal dentro e dal fuori della ricerca gli permetteva di tenere insieme la biologia evolutiva e l’ecologia con una controffensiva teorica e politica al neoliberismo: dalla distruzione degli ambienti di vita, al dominio pervasivo della finanza virtuale sul ‘benevolo disordine’ delle vite reali; parlava di quella deregulation capitalista e smaterializzazione finanziaria che segnava già la fine secolo scorso. 

Non solo vedeva allora nel giusto, ma lo si sta capendo sempre più adesso. Sul piano della ricerca specialistica in senso stretto ciò è evidente con gli ultimi studi di neurobiologia sulle reti nella vita vegetale, con quelli sui mondi batterici dei simbionti che popolano i nostri corpi, con l’ecologia evoluzionista che ben si correla con le analisi in climatologia della crisi in corso. Ma lo si sta capendo però anche ad un altro un livello, ben più tangibile per gli effetti crescenti di molte delle scelte economico produttive da cui Buiatti già metteva in guardia per la salute del pianeta. Si tratta delle verifiche di ritorno in cui siamo immersi, proprio sulla nostra pelle: le nostre responsabilità nell’ ultimo mezzo secolo per l’intensificarsi delle fratture sulle reti vitali degli ecosistemi sono state foriere di zoonosi e le conseguenze climatiche che decimano gli abitanti delle grandi metropoli discendono in buona percentuale dagli effetti messi in moto dalle vaste monocolture e dagli allevamenti intensivi. Queste concrete evidenze vanno cambiando, soprattutto nelle ultime generazioni, il modo stesso di sentirsi parte del mondo vivente, accomunati a molte specie a rischio, mentre stimolano la ricerca di soluzioni economico-produttive radicalmente alternative. 

Possiamo parlare di una lenta rivoluzione antropologica che si manifesta in modi sparsi e distintamente avvertibili. Così, passare come lascito a chi sta arrivando oggi una storia di vita notevole radicata nel passato prossimo dà consistenza, continuità e corrobora le scelte più coraggiose. Mentre, per così dire, permette di rendere onore a quello spazio in più di vita che Marcello Buiatti ha lasciato dentro a chi l’ha conosciuto bene, condividendo con lui pezzi di strada.

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