Non è vero che le tasse non piacciono a nessuno. Ce ne sono alcune che potrebbero piacere a tutti, o almeno al 99 per cento degli umani. Come la minimum tax globale sulle multinazionali, proposta dal Tesoro americano con una svolta voluta da Janet Yellen e dell’amministrazione Biden e adesso sul tavolo del G20 e dell’Ocse. Solo pochi mesi fa, alla vigilia delle elezioni americane, Trump aveva bloccato del tutto il processo decennale, in sede Ocse, per la riforma della tassazione delle multinazionali, mentre l’Unione europea minacciava di andare avanti per suo conto sulla tassazione di Big Tech, inserendo una possibile “digital tax” anche nelle modalità di finanziamento del Next Generation EU, da avviare unilateralmente in caso di fallimento della riforma internazionale. La proposta americana riapre tutti i giochi. È una notizia rilevante, da due punti di vista: il primo, più importante è quello della giustizia fiscale mondiale, il secondo è legato alla fase di emergenza che stiamo vivendo e agli interrogativi su chi pagherà i debiti che gli Stati in tutto il mondo stanno facendo per fronteggiarla.
Profitti nascosti o shopping fiscale
L’evasione fiscale delle multinazionali è nota, documentata, studiata. Avviene sostanzialmente attraverso il meccanismo dell’occultamento della base imponibile – nascondere i profitti – e della ricerca del luogo più conveniente dove farla emergere – shopping fiscale. Se c’è lo shopping, c’è qualcuno che vende: e chi vende in questo caso sono gli Stati, in concorrenza tra loro nell’offrire alle multinazionali le aliquote più basse, e attrarre così la loro residenza fiscale. Ci sono Stati che lo fanno “per professione”, quelli dei paradisi fiscali più noti, esotici, come Anguilla, Bahamas, Bermuda, Isole Cayman, e tanti altri che addirittura hanno aliquota fiscale sui profitti pari a zero. Poi ci sono quelli più rispettabili, ma altrettanto paradisiaci, spesso nel cuore del mondo occidentale: come Irlanda e Ungheria, nell’Unione europea, con aliquota pari al 12%; ma anche Olanda e Lussemburgo, con aliquote formalmente più alte ma altri sofisticati sistemi di abbattimento dell’imponibile che rendono comunque conveniente andare a mettere la sede societaria lì – insieme ad altri vantaggi sul piano del diritto societario, come il poter nascondere i nomi dei proprietari ultimi, beneficiari dei profitti.
L’ultimo conteggio del Tax Justice Network quantifica in 427 miliardi di dollari l’evasione fiscale delle multinazionali. E per dare un’idea del valore della cifra, spiega: con quei soldi si potrebbero pagare ogni anno i salari di 34 milioni di infermiere. Nel loro studio “The missing profits of the nations”, nel 2018, Thomas R. Tørsløv, Ludvig Wier e Gabriel Zucman calcolavano che il 40% dei profitti delle multinazionali finisce nei paradisi fiscali. Alla luce di queste cifre, la notizia non è che oggi ci si stia muovendo, ma perché non ci si sia mossi prima.
Le proposte dell'OCSE: necessari nuovi strumenti fiscali
Per capirlo, bisognerebbe inoltrarsi nella gigantesca mole di documenti prodotti nel processo “Beps” (Base Erosion and Profits Shifting”) dell’Ocse, che per anni ha prodotto molte proposte ma nessun accordo politico. Il primo punto è che mettere il sale sulla coda dei profitti è molto difficile, e lo è ancora di più per le Big Tech: immaterialità della produzione, diritti di proprietà intellettuale, e scala del loro potere rendono abbastanza inutili i vecchi strumenti con i quali si poteva pensare di “localizzare” i profitti delle multinazionali. Per esempio, andare a contare i loro dipendenti, i prodotti venduti, gli stabilimenti. Difficile, ma non impossibile. I lavori in sede Ocse avevano dato diverse possibili soluzioni, raggruppate in due pilastri alternativi: il primo si basa sulla individuazione dei profitti dove effettivamente si producono, e dunque su una redistribuzione del potere degli stati di tassare le multinazionali; il secondo sull’introduzione di un’aliquota minima mondiale. Dunque non è che mancassero le soluzioni tecniche, anche se, come ha scritto l’Ocse, richiedevano di ripensare abbastanza radicalmente gli strumenti fiscali costruiti e sviluppati per un secolo.
Le questioni politiche
Qui veniamo al secondo punto, l’accordo politico: ostacolato non solo dai governi dei paesi che fanno dumping fiscale, ma anche – e soprattutto – da alcuni di quelli danneggiati, Stati Uniti in testa. Gli Stati Uniti, dove hanno sede molte delle multinazionali di cui parliamo, sono tra quelli che più perdono in termini di gettito dalla loro evasione fiscale; ma sono anche il luogo in cui il peso politico delle corporation si sente di più. Non solo. Per molto tempo – e in particolare con l’amministrazione Trump – è prevalsa la linea “America first” anche su questo tema, dunque il tentativo di disegnare una soluzione che, in pratica, agevolasse il paese di “nascita” delle corporation, riportando i profitti in patria. E per anni lo scontro tra i due pilastri possibili della riforma individuati dall’Ocse nascondeva anche questi diversi interessi: con gli Stati Uniti più favorevoli a una tassa minima, fissata a livelli abbastanza bassi, per riportare in patria i profitti delle “proprie” multinazionali.
La proposta USA di riforma dell'architettura fiscale
Secondo quanto scrive il Financial Times, la proposta elaborata dagli Usa adesso è una sorta di fusione tra le due alternative individuate dall’Ocse, con una tassa minima a garantire un “pavimento”, e allo stesso tempo una grande riforma dell’architettura fiscale della tassazione dei profitti, dando a ogni stato introiti aggiuntivi in base alle vendite locali. Questa è la novità della tassazione delle multinazionali nell’era digitale: calcolare il valore prodotto sulla base del consumo, non degli stabilimenti o degli occupati in un certo Paese. Un conto è capire dove si produce il valore – e si fanno i profitti – se si fabbricano e vendono automobili, un altro è individuare il luogo del valore e dei profitti di un motore di ricerca, o di un social network. I quali spesso non vendono i loro servizi agli utenti, ma li danno gratis in cambio di dati, sulla base dei quali estraggono il valore delle micro-informazioni che permettono di vendere agli inserzionisti “spazi” pubblicitari personalizzati. Anche se la proposta Usa non è modellata su Big Tech, le grandi piattaforme sarebbero incluse nel nuovo sistema, e gli ormai consolidati paperoni dell’economia digitale – la cui ricchezza è aumentata con la pandemia – dovrebbero cominciare a sborsare un po’ di tasse.
Sarà questa la volta buona? La svolta politica c’è, spinta dalla necessità di riempire le casse gli Stati che si stanno indebitando a dismisura per far fronte alla crisi da pandemia. Quanto all’attuazione, molto dipenderà dal disegno della nuova fiscalità, e dalle soluzioni tecniche che si troveranno per scovare dove si produce il valore del nuovo petrolio, i dati.
Ma c’è chi teme che la grande contrattazione tra Stati Uniti ed Unione Europea dimentichi “il sud globale”, che rischia di essere vaso di coccio anche se è tra le principali vittime dell’evasione delle multinazionali, come denuncia da tempo l’Icrict, Commissione indipendente per la tassazione della riforma mondiale. Proprio dall’Icrict nello scorso febbraio era partita una lettera a Joe Biden – primi firmatari José Antonio Ocampo, Joseph Stiglitz e Jajati Ghosh – chiedendogli un impegno per una tassa minima globale “ambiziosa”, ossia con un’aliquota fissata al 25% e una equa ripartizione dei diritti di tassazione tra stati. A quanto pare, sono stati ascoltati. Ma attenzione: “c’è il rischio che i frutti dell’aumentato gettito fiscale vadano solo ai paesi del Nord del mondo – ha detto Tommaso Faccio, segretario generale dell’Icrict - Noi vogliamo che le multinazionali paghino il giusto, ma questo deve avvenire ovunque, non solo negli Stati Uniti.”