SOCIETÀ

Da Biden a Harris: il ruolo delle donne nelle prossime elezioni americane

Più passa il tempo dal clamoroso ritiro di Joe Biden, più la candidatura di Kamala Harris prende definitivamente corpo, anche se per la consacrazione ufficiale bisognerà aspettare il 19 agosto. “Molto però si chiarirà già nelle prossime ore, a seconda che emerga o no qualcuno che voglia candidarsi e sfidarla – spiega Mario Del Pero, studioso di storia e politica statunitensi presso SciencesPo a Parigi –. In quel caso si potrebbe andare a una convention aperta, come del resto si è sempre fatto fino al 1968”.

A decidere saranno quasi 4.000 delegati, la stragrande maggioranza dei quali scelti durante le interminabili primarie per confermare il presidente uscente; se però non si formasse subito una maggioranza dal secondo turno in avanti si aggiungerebbero anche oltre 700 cosiddetti superdelegati, figure istituzionali del partito, fino a quando uno dei candidati non raggiungerà la maggioranza assoluta. Per Del Pero “ciascuno dei due scenari è problematico: vere candidature alternative potrebbe portare a uno scontro fratricida che esporrebbe le divisioni interne tra i democratici, inoltre un'eventuale sconfitta della Harris metterebbe a rischio pezzi fondamentali dell’elettorato femminile e nero. D’altra parte però anche lo scenario al momento più probabile, quello di un’“incoronazione”, pone la questione della legittimità democratica di una candidatura calata dall'alto ed evidenzia le antiche fragilità di una candidata la cui unica campagna elettorale nazionale, quella per le primarie presidenziali del 2020, è stata totalmente disastrosa”.

Professor Del Pero, bisognava proprio arrivare a questo punto? Quali sono stati gli errori del Partito Democratico e del presidente? 

"No, non si sarebbe dovuto. Le parole alte, sobrie e dignitose usate la scorsa domenica da Biden avrebbero potuto essere pronunciate un anno fa, da un presidente forte di straordinari successi e che aveva saputo governare con grande efficacia. Si può ad esempio avere dubbi sull'Inflation Reduction Act o su altri provvedimenti, ma dal punto di vista politico Biden ha governato un’amministrazione tra le più disciplinate e coese che si ricordino, con un bassissimo turnover e senza praticamente dimissioni importanti; ha inoltre portato a casa provvedimenti legislativi con maggioranze risicatissime, pur con un partito diviso e ad alto tasso di conflittualità. Alle elezioni di midterm ha avuto i risultati più positivi degli ultimi decenni per un presidente neoeletto. Se insomma nell’estate 2023 avesse detto: “ho svolto al meglio il mio compito ma ora sono anziano e affaticato, non in grado di svolgere un altro mandato”, conducendo i Democratici a primarie aperte e civili, sarebbe stato salutato come il padre nobile del partito e forse anche della patria. Non l'ha fatto e adesso, purtroppo per la democrazia e anche per la sua eredità politica, siamo in un bel cul de sac”.

Il gesto di Joe Biden è davvero un inedito nella storia americana?

“Un candidato designato che si ritira così tardi non ha davvero precedenti. L'unico parallelo possibile è con Lyndon Johnson nel 1968, che però fu annunciò la sua decisione a fine marzo; all'epoca inoltre solo pochi Stati sceglievano i delegati con le primarie e la partita si giocava in una convenzione aperta. Altre analogie, se si vuole, possono essere il fatto che anche quest’anno, come nel ‘68, la convention si tiene a Chicago e nelle proteste dei giovani contro guerra: allora per il Vietnam, oggi per Gaza. Anche Johnson infine fu un ottimo presidente che portò a termine alcune delle riforme più importanti della storia degli Stati Uniti, da Medicare e Medicaid alla fine della segregazione razziale”. 

Chissà che non siano proprio le dimissioni di Biden a dare il la a una trasformazione e un ringiovanimento del sistema

Come ne uscirà la democrazia americana? Quella a cui stiamo assistendo è una prova di forza o di decadenza?

“Bella domanda… È chiaro che siamo di fronte a una democrazia affaticata, spesso anche vecchia e anacronistica in tanti suoi meccanismi di funzionamento: il sistema elettorale, i procuratori eletti, i giudici nominati dalla politica e non sempre imparziali – come abbiamo visto in Florida. La lista dei problemi è infinita e la crescita esponenziale della violenza politica, come registrano i database dell’FBI degli ultimi anni, è l’espressione di questa crisi. Così come lo sarebbe stato un ulteriore scontro Trump-Biden: due ottuagenari non particolarmente lucidi, anche se in maniera e modi diversi. Già i dibattiti di quattro anni fa furono i più brutti e vuoti di contenuto che ricordi, vale a dire dai tempi di Carter e Reagan. Allo stesso tempo c'è però anche una nuova generazione politica che amministra città e governa Stati; tutto si può pensare di Ron DeSantis, governatore della Florida, o di Gretchen Whitmer del Michigan e J. B. Pritzker dell’Illinois, democratici: è però innegabile che abbiano promosso politiche innovative e siano apprezzati dagli elettori, e a livello di municipalità ci sono altri mille esempi da studiare. Anche J. D. Vance, in ticket con Trump, per quanto a volte contraddittorio non è sicuramente un personaggio banale. Chissà che non siano proprio le dimissioni di Biden a dare il la a una trasformazione e un ringiovanimento che, se non proprio una via di uscita da questa crisi, rappresenti se non altro un miglioramento”. 

In conclusione cosa pensa di Kamala Harris, vista da una parte dell’elettorato di Trump come l’emblema del wokeism? Pensa che sarà un candidato debole o all'altezza?

“Penso che alle primarie democratiche del 2020 ci fossero sicuramente candidate più brave e preparate di lei, come la senatrice moderata del Minnesota Amy Klobuchar o, più a sinistra, Elizabeth Warren del Massachusetts. Harris non è percepita come una figura molto di sinistra: da procuratrice fu criticata da una parte del partito perché rappresentava una visione piuttosto draconiana del ruolo della giustizia, basata su legge e ordine. Detto ciò l'impressione è che cancel culture e guerre culturali siano al momento un po' usciti dai radar: DeSantis, ad esempio, ci aveva puntato tantissimo alle primarie e per lui non è andata a finire benissimo. Trovo che il dato forse più interessante sia piuttosto la possibilità, per una candidata donna, di far leva su un potenziale asset dei democratici: il voto femminile. Diversi studi mostrano che dal 1980 in poi negli Stati Uniti le donne si registrano e votano di più rispetto agli uomini, mediamente con uno scarto di tre-quattro punti percentuali, e di solito prediligono il Partito Democratico. Nel 2020 le elettrici furono circa 10 milioni in più degli elettori e premiarono sostanzialmente Biden, e forse neanche Obama nel 2008 avrebbe vinto senza l’apporto decisivo delle donne. Questo forse rappresenterà una risorsa ai democratici, anche perché dall'altra parte c'è un candidato che fatica a controllare le sue intemperanze, spesso come sappiamo volgari o addirittura razziste e misogine”.


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Appena qualche giorno fa Trump sembrava avviato alla vittoria.

“Eppure dopo il 2016 ha sempre perso: alle elezioni di midterm del 2018, alle presidenziali del 2020 e di nuovo in quelle del 2022. Se andiamo ad analizzare il voto disaggregato in quei casi molte elettrici indipendenti, moderate o persino repubblicane preferirono non votarlo. Un dato interessante sul quale credo che cercherà di far leva la campagna di Harris o di un’eventuale altra candidata, sperando anche negli scivoloni di Trump. Del resto l'abbiamo visto anche qualche giorno fa nel discorso di chiusura della convention repubblicana: quando smette di leggere sul teleprompt anche lui spesso fa pasticci”.

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