SOCIETÀ

L’America di Trump secondo Paul Krugman

I Dazi? L'opinione pubblica statunitense già li detesta. Si tratta di una politica estremamente impopolare ma viviamo in un sistema presidenziale, in cui il capo dell'esecutivo ha quasi totale libertà in questo campo. Quindi, a meno che Trump non cambi idea e non sia disposto ad ammettere di aver commesso un errore – cosa che non fa abitualmente – nel breve termine non vedo cambiamenti all'orizzonte”.

Non ha risposte definitive su quanto sta accadendo negli Stati Uniti Paul Krugman, premio Nobel per l’economia nel 2008, a Padova per un convegno sul rapporto tra architettura, società ed economia. Tema affrontato dallo studioso con una lectio magistralis dedicata alla trasformazione – in meglio – della ‘sua’ New York negli ultimi trent’anni, grazie anche a scelte di politica urbanistica mirata.

Inevitabilmente, però, al centro dell’attenzione sono finite le recenti decisioni economiche dell’amministrazione Trump, a partire proprio dai dazi imposti un po’ a tutto il mondo (con poche eccezioni significative, come Russia e Corea del Nord). “Non ci sono solo le considerazioni economiche o finanziarie, pur importanti – ha detto Krugman durante il suo intervento –. Negli scambi e nel commercio internazionale è fondamentale anche il contesto giuridico, un sistema di accordi avviato peraltro proprio dagli Stati Uniti già negli anni ’30, prima della globalizzazione. Si tratta di uno dei trionfi della nostra diplomazia, che mi ha sempre reso orgoglioso come cittadino americano”.

Un sistema flessibile che ha contribuito nel corso dei decenni a creare una cornice di legalità e collaborazione tra gli Stati. Tutto ciò è stato, secondo Krugman, spazzato via lo scorso 2 aprile, in un Liberation Day in cui la nuova America trumpiana ha proclamato di poter fare a meno delle buone relazioni con il mondo.

Non solo la cosiddetta ‘equazione dei dazi’ è assurda, non sappiamo nemmeno chi l’ha scritta. Ci sono addirittura indizi che possa essere stata generata da ChatGPT Paul Krugman

La cosa peggiore, a parte l’enorme incertezza, è il modo in cui tutto questo è accaduto: “Questa decisione non è stata il prodotto di un lungo processo di pianificazione e riflessione: è stata messa in piedi in maniera raffazzonata in un paio d’ore prima di fare questo annuncio che ha cambiato il mondo – ha continuato lo studioso –. Non solo la cosiddetta ‘equazione dei dazi’ è assurda, non sappiamo nemmeno chi l’ha scritta. Ci sono addirittura indizi che possa essere stata generata da ChatGPT. È possibile, e non sto scherzando, che questo enorme cambiamento nella politica commerciale sia nato con qualcuno nel governo degli Stati Uniti che pone a un’intelligenza artificiale una domanda del tipo ‘scrivimi una politica doganale’.”

Un’ipotesi surreale ma non troppo, citata da diversi organi di stampa, che restituisce l’idea della distanza siderale tra le scelte dell’amministrazione Trump II e la maggior parte degli economisti, simile per molti versi a quella tra il mondo no-vax e la ricerca medica. Del resto è proprio la scienza ad essere nel mirino del presidente, con il taglio dei finanziamenti e un clima di crescente intimidazione nei confronti di scienziati e studenti. “È terrificante – ha commentato Krugman ai microfoni de Il Bo Live –. È evidente che oggi al vertice del governo degli Stati Uniti ci sono persone che, di fatto, non credono nella libertà scientifica e accademica. Siamo governati da individui che, in un'altra epoca, avrebbero mandato Galileo davanti all'Inquisizione. Non voglio minimizzare la gravità della situazione: è davvero spaventoso”. 

Non sappiamo se stiamo scivolando verso un regime – ha proseguito l’economista –. Nessuno di noi può dire se tra qualche anno guarderemo indietro e diremo ‘Mio Dio, è stato terribile’, ma sarà solo un brutto ricordo del passato, oppure se questo rappresenterà davvero la fine dell'America così come la conosciamo”. 

Nella sua lectio l’economista si è anche soffermato sullo stato delle città statunitensi, sottolineando come proprio tra queste e i territori rurali corra oggi una delle linee di frattura più nette sul piano sociale e politico. I grandi conglomerati urbani, epicentri della globalizzazione, hanno conosciuto a partire dagli anni ’90 una fase di rinascita, dopo decenni di degrado e criminalità, diventando in parte più sicuri e vivibili.

Una trasformazione alimentata, secondo Krugman, da due forze chiave: l’economia della conoscenza e la diversity. “Le città con un’alta concentrazione di capitale umano, anche se odio chiamarlo così, sono diventate motori di innovazione e benessere, e la crescita della popolazione immigrata non ha alimentato il crimine quanto spesso si crede”, ha spiegato.

Una crescita a cui ha fatto da contraltare l’abbandono dei piccoli centri industriali e di intere aree rurali: “Se qualcuno avesse voluto condurre un esperimento sociale crudele – togliere lavoro e speranza a intere comunità – il risultato sarebbe stato simile a ciò che è accaduto a molte zone rurali americane negli ultimi decenni: collasso sociale, suicidi, alcolismo, dipendenze”.

Anche per questo Krugman intravede in alcune delle forze oggi al governo negli Stati una nuova cultura politica che si rivolge proprio contro i grandi centri urbani, considerati simboli di un cambiamento dal quale si vuole tornare indietro: “Le università sono sotto attacco, l’immigrazione è demonizzata. C’è una coalizione negli Stati Uniti che è ostile a tutto ciò che le città rappresentano: diversità, istruzione e una società aperta”.

Krugman insomma non ha dubbi: in gioco non c’è solo il destino di qualche dazio o di un’area metropolitana, ma l’anima stessa dell’America. E, con essa, l’idea che la libertà, la conoscenza e la cooperazione internazionale siano ancora valori da difendere e non reliquie del passato.

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