SOCIETÀ

JFK e il suo mito, 60 anni dopo

Il tragico assassinio di John Fitzgerald Kennedy, il 22 novembre 1963, non rappresenta un unicum nella storia americana. Caddero sotto i colpi di un sicario anche Abramo Lincoln, James A. Garfield e William McKinley, solo per restare ai presidenti, mentre solo per caso il 30 marzo 1981 Ronald Reagan scampò alla furia omicida di John Hinckley (che intendeva in questo modo attirare l’attenzione di Jodie Foster). Nessuno di questi episodi ebbe però un impatto paragonabile all’uccisione del 35° presidente. Uno dei primi delitti politici visti in televisione, ripreso da più angoli con fotocamere e cineprese, e che tuttavia rimane ancora in parte avvolto da una cortina di mistero.

Al di là però di questo, ancora oggi l’America continua a interrogarsi sull’eredità di uno dei suoi politici più amati (e odiati). Con un’avvertenza: “Quando parliamo di Kennedy dobbiamo sempre fare attenzione allo scarto tra realtà e mito, persona e icona – spiega a Il Bo Live Mario Del Pero, americanista e docente di storia internazionale presso SciencesPo a Parigi –. Oggi gli studiosi concordano abbastanza sul fatto che non sia stato un presidente particolarmente incisivo, anche perché probabilmente non ne ebbe la possibilità”. A giocare contro fu sicuramente il fattore tempo: appena mille giorni alla Casa bianca sono davvero pochi. “Sui diritti civili si trovò di fronte un Congresso in cui un pezzo fondamentale della maggioranza democratica sudista e razzista paralizzava ogni iniziativa sulla desegregazione. In politica estera ottenne risultati ma fece anche errori, a cominciare dall’impegno crescente in Vietnam, dove si passò da 800 a 16.000 soldati americani, ufficialmente presentati come consiglieri militari”. I diritti civili sarebbero però stati concepibili senza il padre della ‘nuova frontiera’? “Il Civil Rights Act e il Voting Rights Act passarono con l’appoggio decisivo di Lyndon Johnson, rispettivamente nel 1964 e nel 1965. È vero che fu Kennedy a presentare il Civil Rights Act e a difenderlo, oltre a lasciare con la sua morte un capitale politico per la sua approvazione. Per far votare provvedimenti del genere però un presidente deve tirar su il telefono, blandire e minacciare i senatori, cosa che Johnson sapeva fare benissimo. E quando la legge passò fu sempre Johnson a predire che da allora il Sud bianco sarebbe passato dal Partito Democratico ai Repubblicani, cosa che poi puntualmente avvenne e che in parte dura fino ai giorni nostri”.

Johnson insomma, anche se privo del carisma del predecessore, fu tutt’altro che un comprimario: “Chi difende Kennedy dice che fu lui a tracciare il solco, nel quale si inserì poi il suo vice; altri invece sottolineano la grande conoscenza da parte di quest’ultimo dei meccanismi parlamentari, grazie anche all’esperienza ultraventennale al Congresso. Dove Kennedy era invece uno dei senatori meno attivi e più assenteisti, anche a causa dei gravi problemi di salute che lo affliggevano: nonostante la vitalità che riusciva a trasmettere era infatti semiparalizzato alla schiena in seguito alle ferite riportate in guerra, motivo per il quale era spesso sotto l’effetto di pesantissimi sedativi. Uno dei tanti paradossi che caratterizzano la sua figura”. Fu sempre Johnson a realizzare anche il più grande ampliamento del sistema di welfare dopo il New Deal: “Nacquero così i programmi Medicare e Medicaid, in seguito ampliati da Obama, così come i programmi di edilizia popolare e le affirmative action in molti settori. Probabilmente sarebbe anche stato più prudente sull’escalation in Vietnam, ma vi si vide costretto per proteggere se stesso e le sue riforme sociali dall’accusa di antipatriottismo”.

Sta di fatto che ancora oggi è difficile pensare a un politico capace di avvicinarsi al fascino di John Kennedy, fin dalla più tenera età allevato scientificamente per il successo in seno a un numeroso clan dal capofamiglia Joseph. Eppure all’inizio sembrava destinato al ruolo del cadetto: fu la tragica fine del fratello maggiore Joe Jr., disintegratosi con il suo aereo durante la seconda guerra mondiale, a proiettarlo nel ruolo di frontrunner. “Anche qui contraddizioni – continua De Pero –: pessimo studente da giovane, come ha recentemente ricostruito Fredrik Logevall nella sua monumentale biografia, Kennedy è allo stesso tempo anche l’unico presidente ad aver vinto il Pulitzer con il libro Profiles in Courage, scritto assieme al fedele ghost writer e autore dei suoi discorsi più famosi Ted Sorensen. La famiglia in cui crebbe, anche dal punto di vista culturale e intellettuale, era quanto di più prossimo all’aristocrazia offrisse in quel momento l’America, e da presidente portò con sé alla Casa Bianca un folto gruppo di studiosi e di intellettuali. Fu il presidente più giovane di sempre e il primo nato nel ventesimo secolo, il primo cattolico, un vero eroe di guerra; bello, era fotogenico e televisivo nel momento in cui la politica diventava televisione, e questo gli permise di sbaragliare Nixon. E non dimentichiamo Jacqueline, figura centrale per il suo successo: bellissima e affascinante, dall’eleganza regale”.

Ancora oggi tutto appare epico quando si parla di JFK: le sconfitte e persino le ombre (ad esempio sui rapporti con la mafia). Una figura che al momento non sembra trovare eredi: “Quella di oggi è un’America profondamente diversa da quella di John Kennedy. Lui rappresentava pienamente il patriziato civile che aveva guidato il Paese dalla fondazione, filobritannico e filoeuropeo, forgiato dalle guerre condotte in prima persona per il Paese. Forse l’ulteriore, estremo paradosso di Kennedy è che, invece di aprire una nuova era, sigillò in realtà quella antica. Detto ciò di lui rimane il concetto di politica come attività nobile, della parola che non semplifica ma eleva, e da questo punto di vista l’ultimo kennediano è stato Barack Obama. Un lascito che oggi sembra scomparire, in un momento in cui il dibattito e pubblico è dominato dai social”. E tuttavia la memoria di Kennedy resta nel tempo presente un forte richiamo al potenziale civile e politico di una leadership carismatica e idealista, anche quando questa viene brutalmente fermata dalla violenza. Per questo a 60 anni di distanza la sua morte, assieme a quella del fratello Bob, rimane – come per Cristo e per i Gracchi – un ulteriore, fondamentale tassello del suo mito.

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