SOCIETÀ

Tax the rich! Cade il tabù nella diplomazia internazionale

Il Brasile, che ha assunto la presidenza annuale del G20 da dicembre 2023, ha un’idea molto chiara dell’agenda che vuole portare avanti in ambito internazionale. Alcune delle proposte che il governo del Paese sudamericano vuole vedere realizzate sono decisamente ambiziose, e non esenti da potenziali attriti. A febbraio 2024, durante la prima riunione dei ministri delle finanze del G20 tenutasi sotto l’egida brasiliana, il ministro dell’economia del Paese ospitante, Fernando Haddad, ha condiviso uno dei punti più controversi della sua agenda: la proposta di introdurre una tassa globale del 2% sui più ampi patrimoni del pianeta.

Questa imposta avrebbe diversi obiettivi: innanzitutto, contribuirebbe a ridurre la disparità nella distribuzione della ricchezza tra i più abbienti, che, pur essendo una piccolissima minoranza, detengono una percentuale sempre maggiore della ricchezza mondiale, e la sempre più estesa platea di poverissimi, che vivono ben sotto la soglia minima di povertà. Sebbene in termini assoluti (cioè a livello globale) il divario tra ricchi e poveri si sia leggermente ridotto negli ultimi vent’anni, nello stesso periodo esso è aumentato all’interno dei singoli Paesi, in molti dei quali si assiste a un fenomeno di accentramento di una parte sempre più ampia del patrimonio collettivo nelle mani del 10% più ricco della popolazione e un rapido impoverimento del 50% più povero.

La proposta avanzata dal Brasile ha raccolto un consenso abbastanza ampio. Ad aprile 2024, il ministro brasiliano Fernando Haddad è stato affiancato dai suoi omologhi di Germania, Spagna e Sudafrica nel sostenere la realizzazione di questa tassa minima del 2% sul patrimonio dei più ricchi, tassa che non si applicherebbe a coloro che già contribuiscono al fisco in modo equo ma mirerebbe a rendere impossibile l’evasione della contribuzione per chi possiede grandi patrimoni.

La tassa ai “super ricchi” si qualificherebbe come un opportuno terzo pilastro da accostare ai due già individuati dall’OCSE per elaborare un sistema di tassazione delle multinazionali, consistenti nell’attuazione di una “tassazione digitale” e nell’introduzione di un’imposta minima globale del 15% sulle grandi aziende multinazionali. Inoltre, il Brasile ha suggerito che i ricavi provenienti dall’imposizione di questa tassa su scala globale – quantificati dall’economista Gabriel Zucman a circa 250 miliardi di dollari l’anno – potrebbero essere reindirizzati al finanziamento di misure “verdi”, come il fondo Loss&Damage o il Fondo per la Biodiversità.

Per comprendere la fattibilità e l’impatto di una simile misura, che è mossa da un intento meritorio e può avere diverse ricadute positive su scala internazionale, ci siamo rivolti a Jacopo Bencini, advisor di Politiche europee e multilaterali per l’Italian Climate Network.

In questi anni, la crisi climatica e la disparità nella distribuzione della ricchezza all’interno delle società sono aumentate parallelamente. La proposta brasiliana mette in luce il legame di interdipendenza, evidente ma spesso ignorato, tra giustizia sociale e giustizia ambientale: quanto è importante riconoscere questa interdipendenza per affrontare sfide così complesse?

L’aumento delle disuguaglianze, con l’aggregazione in pochissime mani di enormi capitali, e gli impatti della crisi climatica (che causano impatti sociali negativi soprattutto sulle fasce sociali già più fragili, per motivi geografici, climatici e socio-economici) si uniscono a una terza dinamica che alimenta questo processo: l’emersione, da qualche anno a questa parte, di una nuova dinamica geopolitica internazionale.

In anni recenti, infatti, i Paesi storicamente più potenti, come l’Europa e gli Stati Uniti, hanno iniziato a perdere influenza nel mondo negoziale. Questa rimodulazione degli equilibri geopolitici ha portato invece alla ribalta i Paesi del G77, gruppo guidato dalla Cina e che ormai raccoglie oltre 130 nazioni in via di sviluppo. Questa compagine, facendo fronte comune, ha difeso le proprie prospettive su temi di negoziazione internazionale cruciali, come la strutturazione della finanza per il clima e lo sblocco delle risorse necessarie per finanziare la transizione verde. Uno dei risultati più noti è l’istituzione del “Fondo Perdite e Danni”, presentato come esito della COP28 di Dubai ma già in discussione almeno dalla COP26 di Glasgow (2019).

Sulla scia di questi successi, sempre più Paesi del ‘Global South’, in particolare i Paesi del G20 e, tra questi, soprattutto i cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) stanno cercando di inventare soluzioni nuove, politicamente creative, per trovare le risorse necessarie per la finanza per il clima. Si susseguono, in tal senso, i tentativi di individuare il capitolo di spesa in uscita per i prossimi anni: finora, i tentativi compiuti con metodi tradizionali, rivelatisi non adatti per questa nuova governance del clima (la prima governance globale di un fenomeno), sono andati a vuoto. La proposta brasiliana si inscrive, dunque, in questo contesto di creatività e intraprendenza da parte dei Paesi emergenti.

Parte integrante della “tassa sui super ricchi” è l’utilizzo dei ricavi per finanziare misure di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici. In che modo, però, si può far sì che questi fondi, che proverrebbero soprattutto dai Paesi più ricchi, sostengano effettivamente le persone e gli ecosistemi più colpiti e più vulnerabili? Esistono, o dovrebbero essere sviluppati, strumenti finanziari che regolamentino questo flusso di finanziamenti?

Innanzitutto è essenziale tenere a mente che c’è un divario ancora da colmare tra le necessità quantificate e quelle che è effettivamente possibile quantificare in termini economici. Questo sarà il compito principale della COP29 di Baku, dove ci si aspetta che sarà identificato il cosiddetto NCQG (New Collective Quantified Goal) sulla finanza climatica, che parte da una base di 100 miliardi di dollari e dovrà considerare le necessità e le priorità dei Paesi in via di sviluppo.

La tassa internazionale prospettata dal Brasile potrebbe certo contribuire, ma i finanziamenti necessari sarebbero di un ordine di grandezza molto più ampio: per far fronte ai danni già stimati a livello internazionale servirebbero circa 3400 miliardi di dollari.

Per quanto riguarda i metodi da mettere in campo per far arrivare questi soldi nei territori, il dibattito è ancora aperto. Strumenti come il Green Climate Fund, in azione ormai da anni, riceve molte critiche soprattutto dai Paesi del Sud globale: è abbastanza consolidata la tendenza a erogare le risorse a disposizione sotto forma di prestiti agevolati, ma quando le risorse servono per finanziare qualcosa di diverso da un progetto ben strutturato (è il caso, ad esempio, dei finanziamenti di compensazione o di riparazione, ancora argomenti piuttosto tabù in ambito finanziario) è difficile aggiungere ex post un tasso di interesse, anche minimo, su somme che dovrebbero invece essere erogate ‘a dono’, come si usa dire nel gergo della cooperazione internazionale. All’origine di questo sistema binario – oggi messo in discussione – di grants e loans vi è una diffusa sfiducia, in ambito negoziale, nei confronti dei territori e dei governi beneficiari: una sfiducia rispetto all’effettiva capacità di spesa, di rendicontazione e di monitoraggio di queste risorse, spesso molto ingenti.

Un altro tema caldo riguarda dove reperire queste risorse e come mobilitarle. Il Fondo Perdite e Danni è, ancora una volta, un esempio chiaro della complessità di queste manovre: già ora, prima che prenda avvio un nuovo ciclo di replenishment (riempimento del fondo), le promesse di finanziamento dei Paesi ammontano a oltre 700 milioni di dollari. Ma quasi in nessun caso i Paesi donatori hanno previsto di prelevare queste risorse dai bilanci statali, né hanno predisposto voci di spesa specifiche; si tratta, per la maggior parte, di promesse di mobilitazione di capitale privato. Assistiamo perciò, ancora una volta, a una finanza di progetto (project financing) in cui l’effettiva disponibilità di spesa dipenderà dall’andamento degli stessi progetti finanziati e/o dalle richieste specifiche del board di riferimento.

In ragione di tutte queste controversie, è importante accogliere la tassazione proposta del Brasile cercando di rispondere ad alcune domande: cosa finanzierebbe questa imposta? Dove sarebbero indirizzati i proventi? Quale sarebbe la governance dell’utilizzo di questi fondi in termini di spesa?

E una domanda ulteriore, legata all’incognita della governance, è quella sull’enforcement: chi potrebbe controllare che la tassa globale sui patrimoni dei super ricchi venga corrisposta?

Anche questo è un tema centrale. In particolare, questa tassa potrebbe essere applicata solo in maniera volontaria dai singoli governi statali, poiché ad oggi non esiste un organismo centrale che possa imporre a un Paese un regime di tassazione nel proprio scenario normativo nazionale. Inoltre è una tassa volontaria che andrebbe a gravare su capitali privati, non su risorse statali: anche in quest’ultimo caso, l’unica forma di enforcement ad oggi esistente è la reputazione rispetto ai partner internazionali.

In tal senso, molto conterebbe il modo in cui la tassa verrà promossa, e soprattutto quanto sarà ampio il gruppo di attori statali che sosterrà questa proposta. Il meccanismo della reputazione funzionerebbe al meglio se si raggiungesse un’ampiezza di partecipazione che superi i 170-180 Paesi, come nel caso degli accordi ONU: in questi casi è più difficile, per i singoli Paesi, tirarsi indietro, poiché hanno preso un impegno di fronte ai propri omologhi internazionali e di fronte ai propri cittadini.

Tuttavia, ad oggi mancano anche strumenti adeguati di monitoraggio dell’adesione agli impegni presi. Per colmare questa lacuna, le Nazioni Unite hanno istituito alcuni strumenti di ricerca, come la piattaforma Global Climate Action Platform che si occupa di monitorare gli impegni volontari degli Stati. Ma siamo ancora in una fase abbastanza primitiva, sicuramente non di enforcing, ma piuttosto ancora di monitoring volontario.

L’idea redistributiva di tassare i più ricchi non è solo del Brasile: anche in Europa esiste una proposta simile, che si è concretizzata in una iniziativa popolare (denominata Tax the Rich) che mira a chiedere alla Commissione europea di introdurre un’imposta europea sulle grandi ricchezze. Almeno in Europa, dove una governance sovranazionale esiste, si tratta di una proposta realizzabile nel breve termine?

Con il Green Deal del 2019, l’Unione europea ha dimostrato che si possono realizzare azioni di larghissimo respiro e prospettiva dal punto di vista della governance del fenomeno climatico e non solo all’interno dell’Unione. Cinque anni dopo il lancio del Green Deal, assistiamo ai primi cedimenti dell’impianto, proprio nel momento in cui la politica si prepara, con le prossime elezioni europee, a una rimodulazione di forze. Credo che l’Unione europea sia, forse, l’unico terreno sperimentale al mondo dove sia possibile realizzare qualcosa di concreto e che, soprattutto, abbia un impatto a livello internazionale.

La principale differenza è che, mentre a livello internazionale una proposta di questo tipo rientra nel filone della giustizia climatica e, in termini più ampi, della giustizia sociale, sfuggendo dunque alle classiche categorie di destra e sinistra, nell’Unione Europea questa distinzione politica è ancora valida. Di conseguenza, le fazioni che si schiereranno a favore o contro una simile proposta di giustizia redistributiva delle fazioni a favore delle fazioni seguiranno schemi politici novecenteschi, in declino nel resto del mondo negli ultimi 10-15 anni. È perciò chiaro che, alla luce delle prossime elezioni, molto dipenderà in questo senso dalla capacità di affermazione di forze progressiste ed ecologiste rispetto a forze più liberali e conservatrici, che storicamente non supportano questo tipo di misure.

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