CULTURA

Teatro: la difficile equità della giustizia al femminile

Come si può risarcire il danno inflitto a una quindicenne con cui si siano contrattate prestazioni sessuali a pagamento? La riflessione di Tutto quello che volevo, monologo di cui Cinzia Spanò è autrice e interprete, parte da questo dilemma. Perché una condanna che preveda, da parte del colpevole, una riparazione in denaro non farebbe che perpetuare, nel rapporto reo-vittima, la logica del commercio senza limiti, dell’acquisto, in cambio di soldi, dei valori più intimi e profondi della persona, arrivando a monetizzare persino la conclusione del processo (salvo ovviamente la pena della reclusione, non convertibile vista la gravità dell’illecito). Non parliamo di astratte considerazioni da teorici del diritto, perché il caso si pone realmente nella coscienza di una giudice, Paola Di Nicola, che nel 2016 si trova a decidere sul destino di imputato e vittima in una vicenda che provoca enorme eco sui media: il caso delle “baby-prostitute” dei Parioli, ragazzine entrate in un tremendo meccanismo di sfruttamento in modo apparentemente volontario e inconsapevole, spinte dal desiderio di denaro facile per sé e i propri familiari, ma soprattutto dalla fragilità dell’ambiente familiare e sociale di cui erano parte.

La scelta di Cinzia Spanò (i cui testi hanno sempre al centro le donne e la loro ricerca di diritti e spazio vitale) è di puntare sull’identificazione tra giudice e vittima. Il perno drammaturgico è lo sdoppiamento del narratore, incarnato ora dalla giovanissima prostituta, ora dalla giudice; l’imputato rimane sullo sfondo, accennato, quasi sfumato nel suo rappresentare una categoria, quella di uomini prevaricatori e senza morale, in grado di ferire la dignità di donne diversissime, quali appunto le due protagoniste del dramma. Il rispecchiamento giudice-vittima si manifesta già in apertura di spettacolo: ascoltiamo un monologo interiore che crediamo della giovanissima prostituta, impegnata a rievocare con dolore l’intimidazione e la costrizione maschili, e scopriamo invece che a parlare è la giudice, anche lei vittima di un ambiente, quello forense, costellato di discriminazioni dolorose (a inizio carriera le viene chiesto, in tono minaccioso, se intende avere figli).

Il testo percorre in parallelo le due storie personali. Laura (nome fittizio) è una liceale senza difese e riferimenti, offuscata dal miraggio di borse firmate e locali alla moda, ma anche dalla precarietà della situazione familiare (padre assente, fratello disabile) che la porta a diventare vittima di due sfruttatori: l’uomo che le procura i clienti, e la madre che beneficia di parte dei suoi guadagni, spronandola a incontrare sempre più uomini. Paola, persona in apparenza di solidità e valori diversissimi, ha con Laura in comune il nemico: un sistema che pone gli uomini al centro di ogni universo sociale e professionale, costringendo anche le donne che aspirano alla magistratura a lottare contro prevaricazioni grandi e piccole. Se la vicenda di Laura è raccontata come un dramma personale (pur in un contesto, si precisa, in cui la prostituzione minorile è una piaga molto diffusa), la storia privata di Paola si stempera nel racconto di decenni di “giustizia ingiusta” che vede nelle donne le vittime di una visione maschiocentrica del diritto e della sua applicazione. Accanto a testimonianze di una mentalità arcaica ancora viva nel dopoguerra (il saggio di un giudice di Cassazione che nel ’57 definisce le donne inadatte a giudicare i delitti a causa della loro impulsività), viene evocato, avvalendosi di filmati d’epoca, il famoso processo per stupro che la Rai mandò in onda nel 1979, con la vittima paradossalmente costretta a difendersi dai legali degli stupratori, impegnati a screditarla dipingendola come immorale e provocatrice.  Di qui l’intreccio con la vicenda moderna di Laura, oggetto, secondo l’autrice, di un linciaggio mediatico che la rappresenta come una ragazzina viziata e senza scrupoli, vittima solo di se stessa e della sua avidità.

Il testo, avvincente e teso, si sfilaccia nella parte centrale, quando la cronaca lascia spazio a una parentesi intimistico-onirica in cui la recitazione dal vivo si alterna a una parte filmata, con figurazioni simboliche dell’inquietudine interiore delle protagoniste; si riaccende e recupera ritmo nel finale, quando le vicende di Laura e Paola trovano sintesi nella sentenza. La giudice – è quanto realmente stabilito al termine del processo - decide che il solo modo di risarcire Laura è condannare l’imputato ad acquistare per lei una scelta di opere letterarie e cinematografiche realizzate da donne (selezione attuata dalla stessa giudice) che le offrano l’opportunità di recuperare, attraverso le riflessioni di queste artiste, una visione consapevole ed equilibrata sul ruolo e la dignità femminili.

In Tutto quello che volevo (regia di Roberto Recchia) Cinzia Spanò è sola sul palco. La scena è composta da cinque grandi pannelli verticali affiancati, la cui rotazione consente il rapido apparire e scomparire della protagonista, che fungono principalmente da schermo sui cui vengono proiettati immagini e filmati, in gran parte simbolici ed evocativi, ben armonizzati con il testo; meno coerenti le musiche, tendenti a sonorità dark e a tratti da melodramma, inutilmente sovraccariche rispetto a un testo già fosco e convulso. La recitazione della protagonista, così come la sua presenza, sono di estrema sobrietà: garbata nel gesto, misurata nel timbro, severa nel vestito di scena (camicetta bianca, pantaloni scuri, tacchi), la Spanò sembra voler eclissarsi come mattatrice per porre la sua fisicità al servizio dei contenuti, riuscendovi pienamente. Contenuti che si prestano alla discussione (il parallelo tra le recenti difficoltà delle donne in ambito forense e lo sfruttamento della prostituta bambina sembra fuori misura) e alla critica (è compito del magistrato, sia pure con le migliori intenzioni, stabilire nel dettaglio il percorso rieducativo della vittima, anziché dell’imputato?); serve poi una maggiore attenzione alla terminologia tecnica (la Di Nicola non è Gip, ma Gup). Ma nell’insieme Tutto quello che volevo centra l’obiettivo, stimolare le coscienze sulla giustizia “al maschile” che nel tempo è stata (quasi) scardinata: non da una contrapposta giustizia “al femminile”, ma dalla giustizia e basta.

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