CULTURA

Lupi e orsi, la difficile convivenza con l'uomo

Giovedì 5 luglio il Consiglio provinciale di Trento ha approvato un nuovo disegno di legge in materia di gestione di orsi e lupi presenti sul territorio trentino, a distanza di pochi giorni la Provincia autonoma di Bolzano ha adottato un provvedimento analogo. Secondo quanto stabilito dalle due leggi, nelle aree delle due province, sarà possibile catturare - ed eventualmente abbattere - gli esemplari ritenuti problematici. 

L'Enpa e il Wwf, in disaccordo con quanto decretato dai due enti, hanno ricordato che, per quanto dotati di autonomia, questi non possono appropriarsi di una competenza spettante allo Stato, quale la gestione della fauna selvatica, senza consultare il ministero dell'Ambiente. Per questo motivo il Wwf ha chiesto al governo di impugnare davanti alla Corte Costituzionale i disegni di legge approvati e si è impegnato a segnalare il caso alla Corte dei Conti.

Il Canis Lupus e l'Ursus Arctos sono due specie protette, la cui coesistenza con l'uomo risulta spesso problematica. Secondo Enrico Alleva, docente di etologia alla Sapienza di Roma ed esperto di biologia del comportamento, il cittadino odierno che si rapporta con gli animali selvatici non può più contare su quella cultura tradizionale della realtà rurale, parte del patrimonio delle conoscenze comuni, che consentiva la gestione della fauna selvatica.   

Alleva spiega che la popolazione di orsi e lupi, dopo una fase in cui era diminuita, è tornata a crescere, grazie a una legislazione che l'ha protetta. Tuttavia stimare il numero esatto di esemplari presenti sul territorio nazionale è difficile, perché si tratta di animali che si spostano e possono percorrere anche una decina di km in una sola notte. Però, secondo l'etologo, l'opinione pubblica è maggiormente orientata alla tutela di questi animali, soprattutto nel caso del lupo che, oltre a presentare una certa complessità a livello comportamentale, cognitivo ed emozionale, ricorda il cane: uno degli animali domestici per eccellenza.   

A livello europeo le sensibilità sono molto diverse: ad esempio in Romania, paese di pastorizia, i lupi venivano regolarmente abbattuti Enrico Alleva

Nel 1970 il Wwf, col Parco nazionale d'Abruzzo, lanciava l'Operazione San Francesco per salvare il lupo da un'estinzione certa. Oggi, secondo l'ente, gli esemplari in Italia sono circa 1600, distribuiti principalmente nella zona appenninica. Nel 2017 la conferenza Stato-Regioni, in un primo momento, approvò il Piano Lupo, poi rinviato, che prevedeva l'abbattimento controllato di questa specie fino a un massimo del 5% degli esemplari presenti sul territorio. Per il Wwf il fenomeno del bracconaggio è ancora consistente: sarebbero 1 su 2 gli esemplari di lupo morti a causa di lacci, trappole, esche avvelenate e colpi di arma da fuoco. 

Quali alternative all'uccisione si possono adottare? Le idee sono tante: a partire dai dissuasori sonori, passando per le classiche recinzioni, finendo con l'intramontabile cane pastore. Otto aziende agricole trentine si sono associate per difendere il patrimonio zootecnico dei grandi predatori: Adgp - l'associazione che li rappresenta - si basa sulla convinzione che la convivenza tra allevatori, bestiame e grandi predatori sia possibile, se ci si equipaggia a dovere. In questa operazione è fondamentale il ruolo del cane a protezione delle greggi.

L'abbattimento legale, in aggiunta al bracconaggio, se non è ben studiato, potrebbe comportare l'aumento della predazione a danno delle greggi. Infatti, come spiega Alleva, è importante stare attenti al ruolo dei lupi all'interno del branco: nel caso di uccisione dei leader, esemplari più forti e anziani, verrebbe meno la pratica della caccia cooperativa orientata all'uccisione di prede più grandi. Di conseguenza ai giovani lupi rimasti verrebbe istintivo cibarsi di prede più piccole e facili da catturare, come le pecore. 

Un altro caso che ha fatto discutere riguarda, invece, una specie non protetta: il cinghiale. Il 5 luglio è stata pubblicata la sentenza del Consiglio di Stato, chiamato a esprimersi sulla legittimità del regolamento della Regione Umbria in materia del fondo regionale per la prevenzione e l'indennizzo dei danni arrecati alla produzione agricola dalla fauna selvatica e inselvatichita e dall'attività venatoria. 

Secondo la normativa vigente in Umbria gli Atc (Ambiti territoriali di caccia), e quindi i cacciatori, sono coinvolti nella predisposizione dei piani di gestione e abbattimento della popolazione di cinghiali e sono chiamati, in caso di insufficienza del fondo regionale per il pagamento completo dell'indennizzo ai produttori agricoli, a provvedere al pagamento della restante quota con proprie risorse. I giudici hanno considerato che un'attività di natura ricreativa, quale la caccia, non possa ripercuotersi sulle attività di terzi. Perciò, qualora i danni risultino maggiori rispetto al fondo stanziato appositamente dalla Regione, spetta agli Atc far fronte al pagamento in ragione dell'inefficace gestione della propria attività venatoria.   

"Si sostiene, a ragione probabilmente, che il fatto che siano aumentati i cinghiali è dovuto all'importazione, da parte dei cacciatori, di specie particolarmente prolifiche provenienti dal nord-est dell'europa, quindi si tratta di un inquinamento genetico - spiega Alleva - c'è una specie di responsabilità tecnica, se non morale, da parte dei cacciatori di impegnarsi. Però bisogna vedere quali sono i costi: se si tratta di dare una mano con le proprie tasse, che si pagano per l'attività di caccia, può sembrare lecito. Se poi la Regione ha pochissimi soldi e abbattere un cinghiale diventa un costo esorbitante: questo non va bene, perché in questo momento il prelievo venatorio è auspicabile dal punto di vista della regolazione ecologica."

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