SOCIETÀ

“Works”, gli spiriti animali del capitalismo nel Nordest

Il Nordest sembra un’invenzione giornalistica, non si sa bene dove inizi e dove finisca ma una cosa è certa: è un posto dove si lavora. Più che il denaro (gli schei), il lavoro è il marchio del Nordest, ciò che descrive meglio questo territorio indefinito. Sia quando ce ne era tanto (ai tempi d’oro di un’economia sempre in crescita) sia quando, come accadde oggi, dobbiamo confrontarci con la sua scarsità, che porta con sé una perdita di identità difficile da metabolizzare. 

E il lavoro è il perno attorno a cui ruota Works il romanzo autobiografico di Vitaliano Trevisan, scrittore vicentino, che prima di diventare “veramente” uno scrittore ha passato quasi 30 anni della propria vita in una serie infinita di lavori diversi: operaio, muratore, lattoniere, geometra, responsabile di prodotto, magazziniere, gelataio emigrante, giardiniere, portiere notturno. È un racconto ruvido, quello di Trevisan, ma di prima mano e vissuto dal basso, dalla prospettiva di chi il lavoro lo deve fare ogni giorno all’interno di un contesto vincolato dalle decisioni prese (o non prese) da altri (il capo, l’imprenditore, el paròn). 

È un libro che fa capire cosa sia stato il Nordest e aiuta a immaginare cosa sarà, perché solo guardando dentro la “scatola nera” del lavoro è possibile identificare i segni dell’attuale evoluzione (o involuzione). Cominciamo da cosa è stato. Prima di tutto, deregulation. Un lavoro senza regole: di sicurezza, fiscali e contrattuali. 

Il primo lavoro di Trevisan è quello di operaio stagionale, in nero, in una fabbrica che produceva gabbie per uccelli. Per passare poi addetto alle presse, appositamente modificate dal paròn per aggirare le regole di sicurezza e consentire maggiore produttività (a scapito dei lavoratori naturalmente). Questa deregulation è però vissuta in modo ambivalente dagli operai: in parte è subita, come nel caso della pressa, in parte vissuta con grande complicità, perché c’è la vicinanza anche fisica dell’imprenditore che è spesso un collega di lavoro e soprattutto una implicita condivisione degli obiettivi di fondo dell’impresa (la volontà di fare un buon lavoro) con la ragionevole aspettativa che qualcosa di quella produttività guadagnata tornerà indietro in termini monetari. Come ad esempio quando andrà a lavorare in modo regolare (un vero traguardo per il nostro autore!) in un’importante impresa di mobili della provincia di Vicenza, dove gli straordinari continueranno ad essergli pagati in nero, in una prassi aziendale ormai consolidata negli anni.

Una deregulation che si manifesta anche nella apparente facilità e rapidità con la quale si cambia lavoro. Trevisan racconta di aver trovato gran parte dei suoi lavori semplicemente rispondendo agli annunci apparsi sul Giornale di Vicenza. Un mercato “perfetto” ben prima del Jobs Act: rispondi, fai un colloquio e se vai bene sei assunto seduta stante (con le regole lasche di cui sopra). E dove il lavoratore può anche cercare di migliorare le proprie prospettive economiche. Come quando Trevisan si licenzia dopo aver raggiunto un’ottima posizione, responsabile prodotto nell’azienda di mobili di cui sopra, spinto dalla possibilità di guadagnare molto di più in un’azienda concorrente: il risultato sarà purtroppo per l’autore disastroso perché l’azienda fallirà. 

Oppure attraverso le forme di imprenditorialità di colleghi che si mettono in proprio per dare vita ad una propria azienda. Una deregulation che trova applicazione, secondo l’autore, anche nel commercio di droga, dove il meccanismo che governa questo traffico non è in mano solo al crimine organizzato ma lascia spazio a iniziative personali di piccolo spaccio, se così le vogliamo chiamare. Per quanto possa apparire selvaggio, il mondo descritto da Trevisan è pieno di energia vitale che si intuisce nella voglia indomita di riempire la propria vita che si ritrova nei posti di lavoro. Gli spiriti animali del capitalismo sono al loro massimo nel mondo di Works.

L’assenza di regole è controbilanciata da una straordinaria competenza tecnica. Trevisan dedica pagine appassionate a descrivere la grande capacità degli artigiani veneti e la loro profonda conoscenza dei materiali e delle tecniche di lavorazione che consentono la realizzazione di prodotti di grande qualità. Un saper fare che richiede anni di perfezionamento e di grande applicazione, un’abilità manuale che affonda le proprie radici in una cultura extrascolastica ma raffinata che rende tutt’altro che semplici questi mestieri. 

È con grave scorno che l’autore, affascinato dalla possibilità di diventare ebanista, viene “freddato” da un artigiano esperto che ritiene preclusa per lui questa carriera a causa del tempo di formazione (oltre due anni) e dell’impossibilità di essere produttivo nel breve termine: se hai superato l’età dell’apprendistato nessuna azienda ti assume. 

Il ruolo e la qualità del lavoro artigiano emergono in molte pagine del libro, dove si comprende facilmente quanto gli artigiani siano importanti per dare corpo alle idee della “classe creativa”. Un’esaltazione della manualità evidente nel rispetto che l’autore ha per questo tipo di lavori (che sceglie volutamente di fare al posto di quelli cosiddetti intellettuali) e per i loro protagonisti.

Molti sono però i lati oscuri del nordest che Trevisan rende espliciti. Quello più evidente è la corruzione diffusa, soprattutto nell’ambito della gestione della cosa pubblica, con particolare riferimento al settore dell’edilizia, ben conosciuto dall’autore. Gli intrecci descritti tra chi teoricamente dovrebbe difendere lo spazio pubblico (il geometra comunale) e l’impresa privata (di progettazione o di costruzione) non sembrano un’anomalia ma invece la normalità, lo status quo con cui fare i conti ogni giorno. Una cronaca che fa capire come l’uso indiscriminato del territorio nel Veneto non sia stato solo il risultato dei molti grandi scandali che si sono succeduti in questi anni ma di un atteggiamento più diffuso nella società, quasi interstiziale e quindi difficilmente arginabile. L’altro aspetto critico è la rilevanza dell’appartenenza etnica. Colpisce che in molti lavori svolti dall’autore uno degli elementi che hanno giocato un ruolo decisivo a suo favore nel momento dell’assunzione fosse il suo essere veneto (più che la sua o meno bravura), e vicentino in particolare, visto che tutto il romanzo si svolge all’interno dei confini provinciali. C’è molto più etnos che civitas nel Nordest descritto da Trevisan; ci si rifugia nel territorio più che provare a elaborare valori condivisi attorno ai quali riconoscersi come società italiana. 

È evidente che, oggi, quella spinta propulsiva che aveva garantito una crescita straordinaria si è esaurita. Lo dicono i numeri, lo dice la disastrosa situazione delle banche popolari e lo dice l’esperienza quotidiana di chi oggi vive questo territorio. Quali strade possiamo seguire per il rilancio del Nordest? Naturalmente non possiamo pensare di tornare a crescere imboccando nuovamente la scorciatoia della deregulation con annessi e connessi. Non ci sono più i tempi né le condizioni per farlo, e non sarebbe nemmeno auspicabile. E ben pochi possono seguire la strada indicata dall’autore che con grande anticipo sui tempi (già a partire dal 2002) è riuscito a costruirsi una way-out. Ha chiuso con i lavoretti, riuscendo finalmente a vivere di scrittura e si è isolato in un paese di montagna quasi disabitato (emigrato in patria).

Che fare quindi? Trasformarsi o morire. Partendo dal riconoscimento di alcuni punti di forza sui quali è necessario investire in modo, prima di tutto il lavoro artigiano. Nelle esperienze lavorative di Trevisan quello che sembra ancora mancare a molte aziende è la capacità di avere dirigenti in grado di valorizzare in modo adeguato il saper fare artigianale. Sembra che in molti situazioni i manager si limitino alla gestione del potere gerarchico e non abbiano interesse a entrare troppo nel merito del funzionamento dell’azienda stessa con l’obiettivo di migliorarla anche quando rispetta tutti le certificazioni più stringenti nell’ambito della qualità e dei processi aziendali. Formalmente in regola, ma sostanzialmente poco capaci di riconoscere le risorse chiave dell’azienda e mettere in campo processi in grado di migliorarla. Lascia perplessi il fatto che Trevisan, nei lavori nei quali è stato impegnato più a lungo, si prefiggesse come compito personale (poi disatteso per cambio lavoro) quello di scrivere dei manuali su come riorganizzare il lavoro e le attività produttive partendo da semplici osservazioni operative. Come se “le mani” fossero già nel futuro mentre le “teste” delle nostre imprese sono ancora nel presente o peggio nel passato. Senza questo cambiamento culturale sarà molto difficile tenere il passo della cosiddetta manifattura 4.0, che richiede sì l’adozione di nuove tecnologie produttive (robot, stampanti 3D, sensoristica avanzata) ma soprattutto la capacità di utilizzarle per creare nuovi servizi e prodotti. 

L’altro potenziale punto di forza riguarda la dimensione metropolitana. Dopo anni di sviluppo senza regole il Nordest è cambiato per sempre. È diventato altro: una metropoli diffusa. Con il problema di non essere riconosciuta come tale: tanto gli amministratori quanto gli abitanti continuano a rimanere agganciati a una scansione dello spazio basata sui comuni. Piaccia o non piaccia quel Nordest non esiste più e dobbiamo prenderne atto, provando a dare maggiore qualità metropolitana a un territorio che a ora ne ha solo la quantità. 

È il momento di fare scelte coraggiose superando gli ostacoli rappresentati dai tradizionali vincoli amministrativi e facendone percepire i vantaggi per i futuri cittadini. L’agenda delle soluzioni possibili è già oggi molto ricca (metropolitana di superficie, bigliettazione unica, gestione dei servizi pubblici) e non c’è qui lo spazio per entrare nel dettaglio. Se non saremo in grado di portare a termine queste trasformazione, la metropoli Nordest resterà largamente disfunzionale e non riuscirà a riavviare il motore dello sviluppo economico e sociale. Il passaggio da provincia a periferia del mondo può essere più rapido di quanto pensiamo. 

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