CULTURA

I nuovi predoni. In giacca e cravatta

Se un tempo il capitalismo cresceva per incorporazione, annettendosi nuovi territori, popolazioni, forme di vita sociale, ora prospera sulle espulsioni, complessi meccanismi economico-politici il cui scopo è eliminare, o almeno minimizzare, i costi di tutto ciò che non produce rendimenti finanziari adeguati. E, come scrive la sociologa Saskia Sassen nel suo nuovo libro Espulsioni (Feltrinelli 2015) “queste espulsioni possono coesistere con la crescita economica misurata con strumenti convenzionali”.

A confermare le analisi di Sassen ci sono innumerevoli dati. Per il momento concentriamoci non sulle pur drammatiche statistiche della disoccupazione (che misurano soltanto chi cerca attivamente lavoro) ma su quelle del tasso di attività, che misurano la percentuale di adulti che lavorano rispetto alla popolazione complessiva. Si vede immediatamente che questa seconda percentuale, in Italia, è particolarmente bassa: circa il 49% contro il 58% circa della media europea e il 63% degli Stati Uniti, dove pure essa è fortemente diminuita dal 2008 ad oggi. Semplicemente, decine di milioni di persone scoraggiate non cercano più lavoro perché sanno che non lo troveranno, in particolare i giovani e le donne. I governi, a quanto pare, non hanno ancora letto l’enciclica dove papa Francesco scrive: “Rinunciare a investire sulle persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la società” (Laudato Si’, n. 128).

Questa realtà non ha nulla di casuale: il mondo non è stato colpito da un meteorite bensì da meccanismi al tempo stesso “complessi e brutali”, quelle che Sassen definisce “formazioni predatorie” composte da “insiemi di potenti attori: mercati, tecnologie e governi”. L’esplosione della finanza ha creato le condizioni per invadere ogni area della vita sociale, anche quelle apparentemente più lontane dalla piovra di Wall Street. La crisi del 2008 ha privato, per esempio, milioni di persone del più elementare dei beni: una casa. Negli Stati Uniti, nove milioni di famiglie con bambini si sono ritrovate sulla strada per il pignoramento della loro abitazione, mentre altrettanto avveniva in numerosi paesi, in particolare l’Ungheria e la Spagna.

Ancora peggiori di quelle degli sfrattati sono le condizioni dei profughi, che fanno notizia soltanto per poche ore, quando le telecamere ci mostrano i corpi che galleggiano sul mare di Lampedusa. Ma il commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) nel suo rapporto di pochi giorni fa ha calcolato che le sole persone in cerca di asilo per motivi umanitari, cioè per sfuggire a guerre e persecuzioni dirette, non alla “semplice” povertà, sono 43 milioni. E la risposta dei civilissimi paesi europei è respingerli, o rinchiuderli in zone di “non diritto”, in prigioni che non dicono il loro nome o in accampamenti di fortuna, come accade sotto i nostri occhi alla frontiera ungherese o a quella croata. Nessuno li vuole e per i governi europei dovrebbero restare sotto i bombardamenti in Siria, nelle segrete della polizia politica in Eritrea o, nel migliore dei casi, invecchiare nei campi profughi dei palestinesi in Giordania e in Libano.

Sassen analizza in modo estremamente acuto tutte le forme di espulsione create dal neoliberalismo: dalla devastazione ambientale causata dall’estrazione di petrolio attraverso la fratturazione idraulica (fracking) all’incarcerazione di massa, in particolare di giovani afroamericani, negli Stati Uniti, alla crisi dei debiti sovrani nella zona euro. Il suo libro non ha fatto in tempo a registrare l’incredibile determinazione con cui Unione Europea e Fondo Monetario hanno perseguito, per ragioni essenzialmente politiche, una politica di neocolonizzazione della Grecia, il paese dove le parole “Europa” e “democrazia” furono coniate, 2.500 anni fa.

Sassen parla della Grecia come di un esempio di espulsioni di massa: un terzo dei lavoratori, tra cui metà dei giovani, sono stati eliminati dal mercato del lavoro, con scarse o nulle possibilità di rientrarvi ma nei mesi scorsi è stato pubblicato un rapporto dell’Ocse su giovani e lavoro, Oecd Outlook Skills 2015. La prima frase dice: “La transizione dalla scuola al lavoro non è mai stata facile; per milioni di giovani nei paesi dell’Ocse è diventata quasi impossibile. Sette anni dopo la crisi economica globale del 2008 più di 35 milioni di giovani tra i 16 e i 29 anni nei paesi dell’Ocse non studiano né lavorano”. Dice proprio così: trovare lavoro all’uscita dalla scuola è diventato per milioni di persone “quasi impossibile”. E a dirlo è il pensatoio dei paesi industrializzati con sede a Parigi: l’Ocse, in un rapporto ufficiale datato 27 maggio.

Stiamo parlando di decine di milioni di persone e non nell’Africa subsahariana o nelle regioni più povere dell’India: nel cuore del mondo industrializzato, quindi anche in Europa, in Italia, espulse dal circuito produttivo. Da noi, negli ultimi mesi, è venuto di moda spacciare un qualche zero-virgola di aumento del Pil per un segnale di “ripresa” dell’economia, con l’implicita promessa di un futuro aumento dell’occupazione. Il libro di Saskia Sassen ci fa capire quanto mendaci siano queste promesse.

Fabrizio Tonello

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