UNIVERSITÀ E SCUOLA

Rivivono i saggi padovani di James Joyce

76 anni fa moriva a Zurigo James Joyce, uno dei geni più celebrati della letteratura mondiale nel ‘900. Una storia conosciuta e studiata, quella dello scrittore irlandese, ma che a distanza di anni continua ancora a riservare qualche sorpresa. Se infatti Padova non può essere considerata un luogo joyciano al pari di Trieste, dove lo scrittore vive a più riprese tra il 1905 e il 1921 assieme alla moglie Nora, mette al mondo i figli Giorgio e Lucia ed entra in contatto con Italo Svevo ed Ezra Pound, molto meno noto è che nel 1912 Joyce si reca nella città veneta per svolgere il concorso per l’abilitazione all’insegnamento della lingua inglese nel Regno d’Italia (a cui Trieste ancora non apparteneva).

Da anni ormai lo scrittore si guadagna da vivere impartendo lezioni di inglese nella casa al terzo piano in via Barriera Vecchia o direttamente presso il domicilio degli studenti per la modica cifra di 10 corone l’ora. Una posizione quanto mai precaria per una famiglia di cinque persone (che in quel momento comprende anche la sorella Eileen, mentre il fratello Stanislaus vive sempre a Trieste ma a un altro indirizzo), tanto più che in quel periodo ha solo pubblicato la raccolta di poesie Musica da camera, per la quale non riceve diritti d’autore, mentre gli editori continuano a rifiutare la prima versione dei Dubliners. Per queste ragioni Joyce alla fine del 1911 concepisce l’idea di concorrere per un posto di ruolo di insegnante.

Così, dopo alcuni scambi epistolari con il ministero e il rettore, tra il 24 e il 26 aprile 1912 lo scrittore è a Padova per sostenere le prove di abilitazione. Di quell’esame oggi nell’archivio antico dell’ateneo padovano rimangono il verbale e soprattutto i due elaborati consegnati da Joyce alla commissione: il primo in italiano, dal titolo L’influenza letteraria universale del Rinascimento, l’altro in lingua inglese (The Centenary of Charles Dickens). Una vicenda non troppo conosciuta nella studiatissima vita dello scrittore irlandese, a cui lo studioso statunitense Louis Berrone ha dedicato nel 1977 un libro divenuto ormai raro (James Joyce in Padua, Random House). Poi non molto altro.

Eppure i saggi, che  oggi sono presentati all’inaugurazione del 795esimo anno accademico dell’università di Padova, non mancheranno di destare interesse nei lettori, non solo tra gli specialisti. In particolare il primo, nel quale l’autore, lungi dal tessere una lode di maniera al Rinascimento, ne compie una radicale critica nel senso di cercare in esso e di analizzare le radici di quella moderna “civiltà complessa e multilaterale”, in mezzo alla quale “la mente umana terrorizzata quasi dalla grandezza materiale si perde; rinnega sé stessa e s'infrollisce”. Un momento di cesura insomma da una secolare eredità spirituale, e di nascita di un materialismo che svilisce l’uomo e le sue facoltà.

Nel secondo tema invece, scritto in inglese e dedicato al centenario della nascita di Charles Dickens, Joyce compie un’analisi molto interessante dell’opera del romanziere inglese, prendendone le parti contro chi vede la sua luce appannata dal recente successo dei narratori russi e scandinavi. Del “Great cockney”Dickens, scrittore londinese per eccellenza, Joyce loda la vicinanza al gusto popolare, che per certi versi lo rende così diverso da lui, e soprattutto l’abilità nel caratterizzare le situazioni e i suoi personaggi: tutte qualità che secondo l’irlandese concorrono a dargli “quello che nella terra delle frasi strane, l’America, chiamano il biglietto per l’immortalità”.

Dalla lettura di entrambi i saggi emerge un Joyce sicuramente brillante e sicuro di sé nel giocare con il linguaggio e i concetti, sia in inglese che in italiano. Il fatto di essere stati scritti in circostanze particolari nulla toglie al valore di questi documenti nello studio e nella comprensione del grande irlandese, che per qualche momento pare quasi dimenticare il concorso pubblico per regalarci due espressioni piccole ma brillanti del suo pensiero e del suo stile, anche nella più rara forma italiana, del resto padroneggiata con maestria.

Come andò a finire? Joyce superò brillantemente gli esami, dando un margine di oltre cinquanta punti a tutti gli altri concorrenti; unica ‘macchia’, in mezzo a tanti voti eccellenti, è la valutazione di appena 30 su 50 per il componimento in italiano. Purtroppo tutto questo non servirà, dato che alla fine il ministero rifiuterà a Joyce il diploma per l’insegnamento, non riconoscendo l’equipollenza con alcun titolo italiano della laurea ottenuta presso l’università di Dublino. Il rettore di Padova Rossi fu costretto a comunicarlo con una lettera inviata a Trieste il 1 settembre: così lo scrittore ancora trentenne (che nel frattempo lavorava al Ritratto dell’artista da giovane e aveva già in mente l’Ulisse) non lavorò mai in una scuola della Penisola. Un esito che, assieme alle altre difficoltà, lo gettò in uno dei suoi stati depressivi funestati dall’alcol che frequentemente lo opprimevano.

Daniele Mont D’Arpizio

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