SCIENZA E RICERCA

La Scienza è democratica?

A margine del dibattito sull’opportunità o meno dell’obbligo vaccinale si è sviluppata in Italia una più generale discussione su una questione davvero non semplice: la scienza è democratica?

È stato soprattutto Roberto Burioni a sostenere presso il grande pubblico una delle due tesi. Secondo il noto scienziato del San Raffaele, “la scienza non è democratica”, perché in ogni suo settore (ad esempio quello dei vaccini) l’opinione degli esperti – una volta verificato il consenso nella comunità scientifica – deve senza incertezze prevalere su quella di chi non ha studiato la materia.

A questa tesi sono state opposte numerose critiche, fra loro non sempre omogenee. Si è così ad esempio sostenuto che un controllo dell’opinione pubblica sul lavoro degli scienziati sia importante. E si è insistito sulla necessità di una comunicazione rispettosa e paziente verso le apprensioni e le paure del pubblico.

Il dibattito sulla democraticità o meno della scienza non è un dibattito scientifico. È un dibattito politico Luciano Butti

Chi ha ragione? Iniziamo con una premessa di metodo. Il dibattito sulla democraticità o meno della scienza non è un dibattito scientifico. È un dibattito politico. E come spesso accade in politica, sono fondamentali le definizioni, in questo caso in particolare quella di democrazia.

Secondo una concezione primitiva della democrazia, essa consisterebbe nella regola della maggioranza (‘uno vale uno’) come criterio generale per adottare tutte le decisioni che interessano la collettività. Se questa concezione di democrazia fosse esatta, Roberto Burioni avrebbe senz’altro ragione: la scienza non è democratica.

Tuttavia, i giuristi hanno da tempo chiarito che, nei moderni stati costituzionali, opera una concezione sofisticata della democrazia, non basata sulla generale applicazione, in ogni ambito, delle regola di maggioranza.  Né si tratta di un’idea del tutto nuova: nell’antica Grecia persino le Moire – le dee del destino – per decidere la durata della vita di ogni mortale, si avvalevano per lo più del sorteggio: a significare che, in determinate circostanze e quando è in gioco l’essenziale, vi è la possibilità di forme di giustizia superiori rispetto al conteggio dell’opinione prevalente.

Vi sono del resto, in primo luogo, numerose decisioni che – in una democrazia costituzionale -  la maggioranza non può prendere: nemmeno se si esprime con il voto, in un referendum o attraverso i propri rappresentanti in Parlamento. Si tratta, per esempio, di tutte le decisioni che discriminano una minoranza, sulla base delle idee politiche, della religione, dell’orientamento sessuale o di altro. “In nessun caso”, poi, secondo la nostra splendida Costituzione, la legge può adottare (nemmeno se approvata all’unanimità) decisioni tali da pregiudicare la “dignità della persona”. Lo stesso strumento del referendum non può trovare applicazione in una serie di ambiti, ad esempio nella materia fiscale o in quella dei trattati internazionali. Ed ancora, la maggioranza dei cittadini non può decidere se un imputato sia colpevole o innocente, né quale pena sia la più appropriata in un caso singolo: si tratta infatti, in questo caso, di decisioni che competono ai giudici.

Bisogna ovviamente prestare molta attenzione: questi casi sono numerosi, ma sono pur sempre eccezioni rispetto al principio di maggioranza, che senza dubbio rimane la più rilevante conquista democratica. Essi devono quindi avere una giustificazione molto solida e non possono essere estesi al di fuori degli ambiti nei quali tale giustificazione li rende inevitabili. E l’essenza di una democrazia sofisticata consiste proprio nella capacità di attribuire ogni tipo di decisione al livello e agli ambiti più appropriati.

Dove si colloca, in questa concezione sofisticata di democrazia, la scienza?  Questa domanda è di cruciale importanza nelle società moderne, ed occorre quindi prestare molta attenzione e saper distinguere.

Nella fase di valutazione del rischio, la regola di maggioranza non trova e non deve trovare applicazione: è invece determinante l’opinione della comunità scientifica.  Questa affermazione emerge chiaramente dal nostro ordinamento costituzionale, come riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale, ad esempio con la sentenza n. 116/2006. Non sempre il Parlamento è stato rispettoso di questa indicazione: non lo è stato, ad esempio, quando – nel caso Stamina – ha deciso (quasi all’unanimità, peraltro) l’effettuazione di costose e pericolose sperimentazioni al di fuori di qualsiasi criterio di correttezza scientifica.

Nella fase di gestione del rischio, invece, sarebbe improprio, per gli scienziati, pretendere di avere il monopolio del potere decisionale. Semplicemente perché gli scienziati non hanno, in questo ambito, il monopolio delle competenze. Ne occorrono anche altre, di tipo giuridico, economico e di comunicazione del rischio. Ed ha un peso anche l’orientamento della maggioranza dei cittadini. Per la gestione del rischio, dunque, in applicazione delle regole di una democrazia sofisticata, l’opinione degli scienziati deve essere ascoltata con attenzione ed ha un ruolo significativo, ma non è necessariamente quella (democraticamente) ‘giusta’. E non sempre è agevole convincere di questo gli scienziati, i quali sbagliano quando pretendono di avere il monopolio delle decisioni (anche) in tema di gestione del rischio. Per esempio, valutare l’efficacia dei vaccini e gli obiettivi di copertura rientra nella valutazione del rischio, che compete esclusivamente alla scienza. Decidere invece se sia più appropriata la strategia dell’obbligo o quella della raccomandazione coinvolge prevalentemente profili di gestione del rischio, in merito ai quali la comunità nel suo complesso deve essere coinvolta, attraverso una politica informata e attenta.

In una democrazia costituzionale, insomma, non sempre ‘uno vale uno’

Dunque, la scienza è democratica? La risposta corretta a questa domanda, come abbiamo visto, presuppone idee chiare sul concetto di “democrazia”, che – nella sua versione costituzionale e non plebiscitaria - non comporta sempre l’attribuzione alla maggioranza del potere di decidere. In una democrazia costituzionale, insomma, non sempre ‘uno vale uno’. E ciò anche se la maggioranza delle persone non fosse d’accordo.

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