SCIENZA E RICERCA

Sulle tracce della battaglia di El Alamein

“Per alcuni di loro fu come tornare indietro nel tempo, nella stessa postazione in cui avevano combattuto nel 1942. Ricordavano il punto esatto in cui sedevano, ricordavano il loro compagno, dove tenevano le armi”. Aldino Bondesan, del dipartimento di Geoscienze dell’università di Padova, rievoca in questo modo alcuni dei momenti più significativi delle missioni coordinate nell’ultima decina d’anni in Egitto. E racconta di quando i reduci italiani delle battaglie di El Alamein furono riportati, a distanza di più di mezzo secolo, nei luoghi esatti che li avevano visti schierati tra le truppe italo-tedesche. Narra di lettere rinvenute nella sabbia del deserto durante le ricerche, di cucchiai con iniziali incise, di un orologio fermo, di oggetti di uso comune che testimoniano la vita dei soldati italiani in Egitto. Dopo due anni di interruzione dei lavori, dovuta a motivi di instabilità politica, il 18 gennaio Bondesan con alcuni componenti del direttivo della Società italiana di geografia e geologia militare ripartirà per El Alamein per organizzare i dettagli della missione prevista nei prossimi mesi. 

Foto: Aldino Bondesan

Il Progetto El Alamein, coordinato dal docente padovano, inizia nel 2008 allo scopo di salvaguardare i luoghi delle battaglie di El Alamein che hanno visto le truppe italo-tedesche combattere contro quelle britanniche durante il secondo conflitto mondiale. È un tratto di deserto che occupa circa 80 chilometri a partire dalla costa verso sud: qui le testimonianze di guerra sono molto numerose, dalle postazioni individuali ai trinceramenti, alle piazzole di artiglieria fino ai ricoveri sotterranei costruiti da entrambi gli eserciti. Nonostante si tratti di una zona militare ad accesso riservato, l’intensificarsi della presenza turistica e lo sfruttamento petrolifero oltre all’azione degli agenti atmosferici hanno in parte alterato alcuni dei siti principali delle battaglie, come Ruweisat, Haret el Himeimat, Menaquir el Daba, la stessa El Alamein. Per questo, per non rischiare di perdere le testimonianze storiche ancora esistenti, è stato avviato un lavoro di individuazione, mappatura e ripristino dei luoghi della guerra di interesse storico, attraverso tecnologie di telerilevamento e geofisica terrestre. Nello specifico è stato messo a punto un sistema informativo geografico (Gis, Geographical Information System) in cui sono state inserite basi cartografiche ottenute con immagini satellitari e la documentazione cartografica esistente. In alcuni casi è stato possibile sovrapporre le immagini satellitari alle foto aeree originali scattate durante la seconda guerra mondiale, recuperate grazie a una puntuale ricerca archivistica, così da poter rilevare cosa si conserva oggi rispetto alle postazioni esistenti all’epoca e riportare eventualmente alla luce opere militari interrate. Il lavoro ha portato alla costituzione di una banca dati in cui sono stati catalogati tutti i manufatti militari finora individuati (trincee, buche, ecc.), corredati da materiale fotografico e informativo (coordinate geografiche, dimensioni, caratteristiche geologiche e geomorfologiche, eventuali lavori di ripristino eseguiti). Le missioni in loco (le cosiddette “cleaning mission”) oltre che a censire e catalogare le opere militari, sono servite e serviranno a  contrastare il degrado attraverso la pulizia dei siti.

Foto: Aldino Bondesan

Ora, dopo due anni di interruzione dei lavori, si riprende. Una volta in Egitto il gruppo italiano incontrerà l’ambasciatore e l’addetto culturale dell’ambasciata italiana al Cairo e il direttore del Sacrario militare di El Alamein per riprendere il dialogo interrotto in questi anni con i rappresentanti istituzionali e le autorità egiziane. Sono poi in programma dei sopralluoghi nel deserto per verificare gli eventuali cambiamenti avvenuti lungo la linea del fronte. “In una delle zone più importanti – spiega Bondesan – è stato scoperto un nuovo vasto campo petrolifero e sono iniziate le trivellazioni che hanno letteralmente sconvolto alcune aree”. Per favorire le attività di estrazione infatti sono state costruite due strade che tagliano il fronte, introducendo di fatto una nuova viabilità. Ci si concentrerà in particolare su una delle posizioni trincerate a metà del campo di battaglia, il “Kaponga box”, e sul “passo del Cammello”, un sito fortificato sotterraneo in parte degradato in cui i rilievi sono iniziati qualche anno fa anche con la collaborazione di alcuni studenti di istituti superiori. 

Se non saranno rilevati ulteriori problemi di sicurezza, presumibilmente a marzo avrà inizio la prossima missione. Chiunque, come è avvenuto finora, può prendere parte come volontario alle spedizioni e ai lavori sul posto, purché provveda alle proprie spese. Non è richiesta una formazione particolare: chi possiede competenze specifiche è assegnato a unità specialistiche, mentre gli altri sono istruiti sui compiti da svolgere e sul comportamento da tenere in zona operativa secondo protocolli specifici. 

Per cercare di tutelare e valorizzare la zona, il gruppo coordinato da Bondesan sta lavorando dal 2011 a un parco storico del campo di battaglia che ha visto la posa di 82 cippi nei luoghi principali dello svolgimento della battaglia, lungo i dieci possibili itinerari da percorrere. Il parco è attualmente visitabile con tour organizzati (contattando la Società italiana di geografia e geologia militare), ma non ancora istituzionalizzato, sebbene secondo il docente non manchi un interesse in questa direzione da parte del governo egiziano. “L’intenzione – argomenta – è di immettere El Alamein nel circuito del turismo culturale, per salvaguardare in questo modo il patrimonio storico. Proprio a questo progetto sta lavorando un collega egiziano che per alcuni mesi si tratterrà nel nostro dipartimento”.

L’indagine è stata promossa dall’università di Padova, in particolare dai dipartimenti di Scienze storiche, geografiche e dell’antichità e di Geoscienze, in collaborazione con la Società italiana di geografia e geologia militare. Nel tempo il gruppo padovano ha lavorato con altri enti e istituzioni nazionali ed estere, tra cui l’Istituto nazionale di oceanografia e geofisica di Trieste e il National Authority for Remote Sensing and Space Science egiziano, e ha potuto contare sull’adesione e il contributo di privati e associazioni.

Monica Panetto

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