CULTURA
“Poi la corte si alzò in piedi..."
Quando Rebecca West, inviata del New Yorker, arriva a Norimberga per assistere al più celebre e famigerato dei processi del Novecento, è una giornalista molto nota. Il resoconto del processo, che si svolgerà dalla fine del 1945 all’ottobre 1946, sarà il primo di una serie di articoli sulla Germania del dopoguerra, raccolti poi nel 1955 nel volume A train of powder, ora tradotto da Masolino D’Amico per Skira (Serra con ciclamini, 2015)
Nel 1946 Norimberga, “dove il nemico del mondo veniva processato”, non è più la città che ospitava i raduni oceanici del Terzo Reich e dove trionfava la sua innovativa e tenebrosa estetica politica. Infatti la città è un ammasso di rovine e sepolta sotto milioni di metri cubi di macerie; il Campo Zeppelin, l’area dei fasti della ritualità nazista, è diventato un campo profughi; per le strade code lunghissime davanti ai pochi negozi rimasti aperti; tedeschi cupi e assorti che non hanno nessuna voglia di parlare; inglesi, russi, americani, francesi si aggirano ovunque.
Il processo che si celebra nel Palazzo di Giustizia della Fürther Straße, incredibilmente rimasto in piedi, agli occhi della West è terribile e noioso allo stesso tempo: da un lato si processano autentici criminali e si racconta dello sterminio di milioni di ebrei e dall’altro, come in ogni processo, ci si impiglia in lunghe digressioni procedurali. I gerarchi nazisti “attraverso i loro legali si aggrappavano alle procedure e la dilatavano fino ai limiti estremi del suo tessuto; e così suscitavano nel resto della corte un’impazienza selvaggia”. Robert Jackson (Mr Justice Jackson, come lo chiama la West), della Corte Suprema degli Stati Uniti e procuratore capo che istruisce il processo, vuole in realtà mettere alla prova un modello giuridico per il diritto internazionale a venire. Si oscillava, all’origine del processo, tra l’esecuzione sommaria e la soluzione giudiziaria. Fosse stato per Churchill la cosa più sbrigativa sarebbe stata fucilare i criminali nazisti e farla finita per sempre.
Più di venti gerarchi siedono alla sbarra e, scrive la West, “del loro potere e della loro gloria non rimaneva la minima traccia, talmente ridimensionati da rendere difficile ricordare chi erano stati”. I vinti saranno giudicati dai vincitori, e la West sottolinea le ambiguità di un processo che imputava ai tedeschi crimini che gli stessi alleati avevano commesso. I tedeschi avevano fatto a pezzi la Polonia, e i russi, per parte loro, non solo avevano partecipato al banchetto ma avevano anche invaso la Finlandia e le repubbliche baltiche e massacrato l’élite militare polacca a Katyn (come poi fu accertato). Gli americani, invece, avevano sganciato le atomiche nell’agosto del ‘45. Niente male per chi poi assume il ruolo di giudice sui crimini di guerra (uno dei capi d’imputazione del processo, assieme ai crimini contro la pace e ai crimini contro l’umanità – in questi ultimi rientrava lo sterminio scientifico di milioni di ebrei).
Il generale russo Nikitchenko, uno dei quattro pubblici ministeri alleati, che era già attivo nei processi farsa delle purghe staliniane degli anni Trenta, non si capacitava, fatta salva la procedura giudiziaria e contro ogni evidente principio dell’habeas corpus, di come si potesse garantire agli imputati un contraddittorio. E tuttavia, nonostante le ambiguità e le notevoli falle giuridiche che lo fecero inorridire, il sommo giurista Hans Kelsen riconobbe che era necessario punire i responsabili di crimini abnormi contro ogni diritto universale. Lo stesso procuratore capo Jackson ammise che in gioco c’erano non tanto una forma e una procedura giuridiche, quanto la difesa dell’essenza stessa dell’umanità.
I ritratti di scorcio che la West fa dei gerarchi nazisti sono schegge taglientissime. Avvolti da un alone di morte, lontani dalle funzioni che avevano svolto, i gerarchi nazisti hanno l’aria di chi sta nel posto sbagliato. In fondo – lo disse per tutti Julius Streicher, sodale di Hitler della prima ora, razzista ed editore della violentissima rivista antisemita Der Stürmer – avevano obbedito solo agli ordini, la Germania era la responsabile.
Di Streicher la West scrisse che sembrava “un vecchio sporcaccione del tipo che molesta nei parchi, e una Germania sana lo avrebbe ricoverato molto tempo prima”. Göring sarcastico, amorale e vanitoso come “una maîtresse di un bordello”; Rudolf Hess “era notevole perché era evidentemente pazzo”; Speer “nero come scimmia”; Hjlmar Schacht, l’ex presidente della Reichbank, uno degli uomini più spregevoli e bugiardi del secolo scorso, “sosteneva sempre di essere superiore alla banda di Hitler”, eppure non ricordava più di quando, nei tardi anni Venti negli Stati Uniti, consigliava a tutti di leggere il Mein Kampf del Führer; Baldur von Schirach, a capo della Hitler-Jugend che, mentre l’implacabile sir Hartley Shawcross, giudice di parte inglese, gli rinfacciava la sua responsabilità nella deportazione di quarantamila bambini sovietici, “sollevò la mano delicata e sfilò il cerchietto dell’auricolare, deponendolo molto piano davanti a sé”. Solo Hans Frank, governatore della Polonia sotto l’occupazione nazista, mostrò turbamento, si convertì al cattolicesimo e ammise ogni responsabilità.
Memorabili sono le pagine in cui la West racconta il giorno della lettura delle sentenze: “Poi la corte si alzò in piedi […] si alzò come un aereo decolla, come i gabbiani si librano dal mare al suono di una sirena, come se stesse per volare fuori dalle finestre, per sollevarsi dal tetto”. Sembra lampeggiare nelle pagine della West non solo il momento risolutivo di una faccenda tra vincitori e vinti ma anche di una storia di colpe e di castighi e, nonostante la nostra irrimediabile lontananza dalla teodicea di un grande tragico come Eschilo, il finale descritto dall’inviata del New Yorker pare l’istante di una catarsi: chi è responsabile di delitti verso i popoli susciterà l’ira e lo sdegno divini. Nell’Agamennone si legge: “Di coloro che molti hanno ucciso / non incuranti sono gli dei”. Anche se con cautela sia lecito, ogni tanto, sperarlo.
Sebastiano Leotta